
Non è facile arrivare a certi libri, anche per chi, nel tempo, ha provato a fare della ricerca dell’insolito la personale ragione di movimento, di lettura ed eventuale tentativo di restituzione, del senso contenuto in quel fuori dall’ordinario, ad altri potenziali lettori. In questo caso, è accaduto che un passaggio “importante” sui social lo abbia sottoposto alla mia attenzione, che io ne sia rimasta incuriosita e abbia deciso di portarlo su Ork, nonostante la difficoltà evidente di renderne, a parole e in uno spazio relativamente breve, la natura composita che impedisce una trattazione ordinata e prevedibile della materia contenuta. Sempre ammesso che qui, di solito, la si faccia.
Proviamo, allora, a tracciare dei punti, perché questo è un esperimento narrativo che passa assolutamente dall’estetica, senza che ciò equivalga a uno svuotamento contenutistico del medesimo. Al contrario, forma quale accenno “fisico” di un livello o punto differente, quasi fossimo in presenza di una scena che si ripete, nel tempo e nello spazio, richiamando l’origine o l’accaduto, a seconda della frazione temporale sezionata, e anticipando il prosieguo in un gioco infinito di parallelismi nel rispetto di una geometria che parte dall’osservazione di piani diversi per, poi, spostare lo sguardo verso l’alto e tradurre il meccanismo di “lettura” in un possibile congiungimento di punti che muta il discorso facendolo deflagrare nella circolarità del tempo.
Che l’autore, sociologo di formazione, come recita la sua biografia, sia un gallerista, un curatore di mostre ed editore di cataloghi d’arte, è un indizio assolutamente non trascurabile nella composizione del puzzle insolito in cui potrebbe tradursi “L’autore non è d’accordo”, edito da Castelvecchi, se volessimo concepire questa odierna ospitalità nei termini di un diletto intelligente che consta di elementi da assemblare. La passione e la competenza artistica di Carlo Virgilio sono la sostanza imprescindibile di una narrazione che, anche per esse, si fa colta, senza mai togliere ritmo allo svolgersi della medesima, ma sono anche la possibile origine di una scelta strutturale che contiene, nella sua estetica non priva di senso, l’essenza stessa del romanzo che non esclude la capacità di comprendere nell’area romanzata la celebrazione della bellezza. Quella che, nella sua decadenza, reca la potenza e la fragilità di una condizione che passa più volte dall’omaggio alle donne.
Dunque, arte, passione, bellezza e femminile alcuni dei punti da congiungere per tracciare il senso ultimo, ammesso che esista, di una trattazione che assume contorni filosofici e si tinge di tutte le atmosfere in cui il tempo si ferma e possiamo garantirci la transitoria e beffarda convinzione di un’immortale condizione.
L’anticipo rivelatore di questa estetica funzionale, e non per questo meno godibile, è nella quarta di copertina, laddove l’editore annuncia la peculiarità strutturale, limitandosi saggiamente a ciò e non varcando il confine di un discorso che ruota intorno al felice gioco dei rispecchiamenti. In sostanza, ci dice che siamo di fronte a un “trompe-l’oeil letterario” e questo basta per iniziare a connotare più concretamente il carattere fuori dall’ordinario dell’ospite di oggi. Dunque, immagini che ne richiamano delle altre e questo accade su più livelli, toccando l’ambiguità del ripetersi dell’agire umano non solo ogni singolo racconto dei tre di cui si compone il libro, ma arrivando a tessere la trama dell’intera narrazione nello scorrere di un tempo condiviso che tre voci provano a riempire nella sospensione imposta in un podere toscano dall’impossibilità di spostarsi da lì.
Sono una scrittrice e due giornalisti ad aprire la scena di un tempo diverso da quello vissuto, complice un blocco che li esclude per un po’ dalla vita ordinaria, dalle sue regole e dalla sua velocità. Sappiamo che “non sono le persone più cattive del mondo” e che, però, sono portatori sani di quei limiti umani che solo la poetica della narrazione può riscattare dalle loro, dalle nostre miserie. Facile entrare in scena, più difficile rimanerci, perché il gioco, a questo punto, perde la sua connotazione spazio-temporale per involgere epoche e luoghi diversi, lungo un viaggio che reca con sé l’intimità di tappe che si aprono alla condivisione, diventano patrimonio dell’umanità, rivelando il possibile accostamento ad altri punti dell’immagine finale non ancora tracciata per bene e la cui sagoma ha per ora l’idea spezzata delle cose che non si compiono nella dimensione di un libero arbitrio addobbato a dovere.
Quello in cui la volontà si ferma l’istante prima della rinuncia a se stessi, dove dio non esiste ancora e c’è spazio per l’inganno di una possibile interferenza nei giochi della vita o, meglio, delle vite che si ripetono con declinazioni spazio-temporali diverse. Lo dice bene un passaggio che si configura quale sintesi estrema di un pensiero che attraversa il libro, talvolta sotterraneamente, altre in un impeto di rivolta e desiderio che cede ai colpi dell’imprevedibilità del caso: “Afferrare le occasioni, se e quando vengono, è l’unica scelta possibile. Ma non è tutto così schematico, per carità. Ci illudiamo di essere protagonisti e talvolta succede per davvero. Ma più spesso la vita va per i fatti suoi, che neppure coincidono. I fatti suoi e i nostri. E poi capita che a un cambio di percorso, a una vera svolta, segua un istinto di abbandono. L’impeto delle decisioni si spegne e la vita trascina, va avanti per inerzia. E non è mica questione che sei depresso: sarebbe troppo facile”.

Siamo dentro una storia e ci illudiamo di esserne al centro, ma ci sfugge un particolare che ci scansa da ogni forma di superbia e quello si chiama Tempo, un valore inesistente, se non fosse per la caducità tradita dal corpo che non si sottrae alle leggi della fine. Non resta che continuare a stare sulla scena nella coscienza di un macchinazione dove a decidere sono le Parche, donne che, ai lati o al centro delle nostre esistenze, ci rammentano che tutto è veloce, fuggevole a volte quanto la loro comparsa, e sta per scadere il tempo che ci è concesso, laddove nel volgersi verso l’uomo incarnano il desiderio, il senso, la speranza, la giovinezza perduta per sempre e custodiscono, in fondo, anche il segreto per non morire doppiamente al rintocco previsto. È lì che c’è ancora spazio per giocare quella che è, poi, la partita del tempo, fuori dalle sue logiche, fuori dalla nostra miseria, composta dei limiti delle voci narranti e dei personaggi delle singole storie, che, ambientate in una realtà contadina e rurale, nella capitale francese e a Roma, ci consegnano una rete fitta di trame in cui il mistero sovverte l’umana tendenza a spiegarsi le cose e a volere interferire con lo svolgersi dell’esistenza, quasi fosse possibile rimediare, muovendo i fili delle vite degli altri che ci somigliano e quelli delle nostre possibili vite pregresse, in una quantistica visuale dei corpi, alle scelte non fatte, agli amori perduti, alle occasioni mancate. Allora, non c’è margine: l’agire è soggetto a una fatalità ampia che incontra un senso possibile nei nostri limiti, in ciò che non è accaduto perché non eravamo quello che avremmo dovuto essere perché accadesse.
Ciò non offre né riparo né consolazione perché il romanzo tradisce l’inquietudine della coscienza e il movimento del desiderio che non si arresta fino alla morte. Non è il merito delle tre storie ad aggiungere elementi indispensabili alla comprensione dell’identità profonda di questo libro sapiente e metafisico e che, proprio perché tale, si affranca dalla materialità delle vicende conducendoci verso uno spazio nettamente superiore in cui il Tempo è certamente uno dei protagonisti, ma non esaurisce la portata insolita del libro di Carlo Virgilio. Si raccontano vicende di amori e tradimenti, di incontri e speranze, di ambizioni e ricerche, ma su tutto sembra fare capolino l’astuzia dell’autore che pare omaggiare l’arte dello scrivere, oltre l’estetica funzionale di cui si è detto, e prima ancora quella del narrare. La pochezza misera delle vite delle voci si riscatta con l’ausilio della narrazione delle storie, in quel margine in cui con la finzione generiamo, con urgenza, quello che non siamo e realizziamo il nostro mondo possibile. Dunque, la poetica dell’agire regala respiro alla claustrofobica scena del libero arbitrio e lo regala perché l’agire passa dal racconto che, a sua volta, passa dalle mani di chi lo scrive e lo porta fino a noi. Garantendo l’autore a se stesso, ma in fondo a tutti noi quella porzione di immortalità schiacciata dalle regole del Tempo e della Vita.
Mindy