“Tra due incompletezze non esiste metro di normalità, il meno e il più sono entrambe condizioni di difetto, impediscono il realizzarsi della simmetria che consente l’unione nella separatezza”: libro anche sulla mancanza quello che Ork decide di ospitare oggi, libro definito da più parti “complesso” e che offre la catartica opportunità di rendere le disavventure familiari, comunemente distribuite ben oltre le pacifiche parvenze dei nostri affetti più o meno vicini, ideale e solida piattaforma da cui avanzare per non fuggire il viaggio dentro i traumi e le separazioni delle vite familiari, quello che a un certo punto ci tocca compiere e che coincide con il definitivo salto verso la non tanto agognata maturità.

“La casa delle madri”, di Daniele Petruccioli, edito da TerraRossa, è il romanzo che arriva su Ork nel momento esatto per parlarne, come accade per gran parte di ciò che decidiamo di portare qui, per effetto di quelle non fortuite coincidenze che rendono la scrittura altrui parte integrante delle nostre vicissitudini: puntello e stimolo, riparo e conforto, coscienza e ripartenza di vite abbastanza complesse da dirsi allineate alla definizione dell’ospite odierno e, pertanto, qua e là raccontabili con la voce di un autore, piuttosto che con la nostra, troppo impigliata negli incastri dell’intimo.

Il solo accenno di presentazione del romanzo, funzionale all’introduzione, contiene già due elementi essenziali per l’ingresso nella più ampia trattazione che il testo merita: la solidità e la complessità. Ora, se quest’ultima è data dall’impianto, dalla scelta linguistica e dalla materia trattata che passa per delle caratterizzazioni non semplici dei protagonisti e dei personaggi che vi ruotano intorno, la prima è nella voce sottesa alla narrazione che, in un andamento da marcia in apparenza costantemente moderato, esplora ed espone, sviscera e traccia, senza tregua e con lucida attenzione, il percorso lungo di una vita familiare. Tutto ciò nell’architettura delle case che ne ospitano lo svolgersi, quasi un confine rispetto al mondo, e attraverso lo sguardo di due gemelli, mediante il riflesso dei due nella dimensione materna e la restituzione ai primi del desiderio di chi li ha messi al mondo in un inevitabile cortocircuito in cui gli affetti si arrampicano faticosamente sulle pareti scoscese delle aspettative dell’altro e si tramutano nell’esatto opposto, come accade tutte le volte in cui impariamo a nostre spese il valore libero dell’Amore. Ernesto ed Elia sono le mancanze destinate a incontrarsi per il breve tempo dell’infanzia nei limiti concessi dalla loro storia, dagli incastri genitoriali, dalle peculiarità dell’uno e dell’altro che tracciano, passando dal corpo e dalle fragilità assegnateci dal caso, quei confini entro cui è dato muoverci più o meno liberamente.

Questo perché, se esiste un terreno in cui nasciamo, un margine di azione a ciò conseguenziale, ad esso si sovrappone quella maggiore o minore capacità di spostamento in esso e, in qualche modo, anche fuori da esso, laddove strutturalmente possibile, che decretiamo noi con la nostra volontà, ma anche chi ci ha generato, con la prefigurazione del futuro familiare che è lo specchio delle proprie ansie e dei propri desideri di fronte a cui si sacrificano l’identità e la libertà dei figli. Ernesto ed Elia nascono, nonostante gemelli, in forme diverse, poiché il primo farà i conti con una fatica motoria di origine neurologica che lo renderà deficitario nella dimensione corporale della velocità e della crescita, a cui sopperirà con il linguaggio e il pensiero, rispetto a cui l’altro andrà più comunemente verso una direzione di naturale approccio di scoperta della vita senza i fardelli, le paure, gli scompensi di Ernesto, dilatati dai timori della madre e dalla incapacità del padre e da lui sentiti e introiettati in forme che nel tempo si faranno rifugio di malessere senza tregua e senza ascolto.

Ora non è l’evidenza di una differenziazione tra i due a decretarne la distanza che nel tempo assumerà l’aspetto di una separazione, liberatoria per l’uno e tragica per l’altro, ma ciò che su questa evidenza finirà per costruire la madre, Sarabanda, donna emancipata e mai sottomessa alla volontà degli uomini con cui impara presto a interagire alla pari, confondendosi nella loro linearità di giudizio in cui fare naufragare la morbidezza femminile dell’accoglienza materna e celare agli occhi quelle variazioni di colore di mezzo in cui si staglia gran parte della nostra vita, ben oltre il bianco e il nero, e in cui risiedono anche Ernesto ed Elia, oltre la comodità di fuga di tutte le classificazioni del mondo. Una madre decide, un padre manca e due figli crescono nella prospettiva designata dalla prima in cui il figlio “normale” dovrà occuparsi dell’altro, quello fragile e bisognoso, in una relazione simbiotica dentro la quale Ernesto potrà vivere di normalità imprestata e l’altro si farà carico dei suoi deficit imparando la fatica dello stare al mondo, come se entrambi, nel ruolo assegnato da Sarabanda, dovessero scontare le sue colpe, quelle di chi ha finto di accettare la diversità entrata in famiglia per volere di un caso subdolo, per poi addossarne le conseguenze su coloro che rimangono a fare i conti, a vita, con le inquietudini accantonate da chi avrebbe dovuto incominciare a farlo in ordine di ruolo e di tempo e si è premurato di non farlo.

“Dedalo e Icaro”, matita e carboncino su carta, Mork.

È abbastanza chiaro che la complessità della vicenda poteva scegliere voci diverse. Il fatto che ad essa corrisponda una narrazione solida non saprei dire quanto sia funzionale alle argomentazioni di sostegno all’urgenza della medesima, di questa storia in particolare. Questo perché la solidità, che parte come volontà di sguardo lucido sulla trama che scorre in quell’andamento moderato di cui si è detto, a noi rivela l’impressione di una verità celata, nascosta sapientemente al nostro sguardo, dentro la quale è racchiusa la fatica di raccontare un dolore che, contenuto, perché non deflagri generando scomponimento emotivo, si frena, raffredda la voce narrante medesima e la rende non sempre autentica.

La distanza che manca della naturalezza necessaria e che si impone per difesa e urgenza di dichiarare a se stessi la fine di un dolore, più che lo svolgersi della vicenda che ne è stata la causa, contamina non solo il tono della voce narrante, ma anche la scelta linguistica del romanzo che, tradendo il passato da saggista dell’autore, altera il ritmo complessivo dello stesso, inducendoci a guardare quell’andamento moderato come un tentativo di arrestare un’altra storia che ancora non ha maturato i suoi tempi tecnici di gestazione.

Presenza ingombrante, dunque, quella della voce narrante che spiega fin troppo bene le dinamiche della famiglia di cui si racconta, scandagliando fino all’infinitesimale tutto ciò che accade e che non vediamo, lasciando il lettore perplesso rispetto all’opportunità di farlo in questa modalità, così in fondo da avere paura di potere essere frainteso, mal letto, “incompreso”, come recitava un titolo, qui perfetto, di un romanzo di Florence Montgomery da cui Comencini trasse spunto per l’omonimo film del 1966. La complessità, invece, strutturale, che si esprime in un arco temporale che non si svolge in forma lineare e progressiva, ma attraverso rimandi tra passato e presente, contribuisce a dare movimento laddove lo stesso si arresta in parte, in una buona compensazione assolutamente non facile da gestire.

La forza del romanzo di Petruccioli è nella storia, nell’idea di volere portare tra le pagine di un libro quella dimensione familiare scomposta fuori dalla perfezione dell’ordinario in cui felicemente nascondiamo al mondo le nostre falle fino a negare a un figlio il diritto di essere diverso o fino a concedergli quello di poterlo essere, ma solo rispetto all’altro, quasi incarnasse l’uno, agli occhi della madre che si confondono con i propri, la difficoltà di essere al di fuori delle mancanze rispetto all’altro. Gioco, dunque, di rispecchiamenti sottile che si ripercuote sul rapporto tra fratelli, sul vincolo simbiotico imposto, sulla fatica di Ernesto di lasciare andare il fratello verso la sua normalità senza concepirne la scelta come un tradimento rispetto ai piani materni coincidenti con la propria volontà, non potendosi la sua fragilità strutturale ergersi oltre quegli steccati per ammettere il diritto alla felicità del fratello lontano da lui. Gioco che non lascia indenne neanche Elia che nella libertà delle esperienze e nel godimento di un piacere escluso all’altro finisce per fare i conti con il senso di colpa che inquina il rapporto anche dal lato “sano” in un incontro che si fa nel tempo sempre più difficile, poi impossibile. E gioco che rivela non una madre, ma un plurale, quasi ci fossero due Sarabanda, al di là delle donne che popolano il romanzo e che, talvolta, in altre forme provano a supplire ai vuoti materni. Quasi ci fosse la madre di Ernesto e la madre di Elia, ognuna a suo modo mancante, ognuna diversa dal bisogno del figlio e lontana.

Il romanzo richiama alla mente uno dei film più belli, per noi del pianeta Ork, dell’inizio di questo millennio: anche ne “La meglio gioventù” Marco Tullio Giordana raccontava il rapporto tra due fratelli, uno dei quali più fragile, un amore fraterno spezzato dalla fatica di vivere del più debole che si sottrae in una notte di Capodanno ai festeggiamenti e alla gioia di vivere che non gli appartiene. In un passaggio, dopo la sua morte, un amico di entrambi dice al sopravvissuto: “Tu devi smettere di pensare a tuo fratello come a un ostacolo. Perché, se continuate a pensare a lui come a un ostacolo, finirete per odiarlo”. Esiste un margine, quello fuori dai desideri materni, fuori dai vincoli che essi creano, in cui è racchiusa la storia di amore possibile tra fratelli, quello spazio in cui non si chiede all’altro di essere ciò che non è o che non sarà mai, ma lo si ama incondizionatamente. In quello spazio c’è l’amore immenso di tutti quelli che conoscono la fragilità familiare, la precarietà della felicità familiare e, in fondo, anche la sua decadente bellezza.

Mindy

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