
Hebe Uhart è una scrittrice di origine argentina nata nel 1936 e scomparsa nel 2018. Le foto che circolano sul web la ritraggono talvolta con un sorriso che arriva da un luogo dell’anima così lontano da richiedere un adattamento espressivo non del tutto compiutosi, sempre con un aspetto distinto, consono a una signora della sua generazione. Lo sguardo, però, attento e rivolto a un altrove che pare scorgere solo lei, tradisce, forse con più verità, l’identità di una scrittrice da noi poco conosciuta e che, nell’indagine del reale che conduce, non dimentica mai il suo genere, seppure declinandolo liberamente, ben oltre un puro confine di forma. “Un giorno qualunque”, notevole raccolta di racconti, è il suo recente passaggio in Italia per merito de “La Nuova Frontiera” che lo pubblica nella traduzione di Giulia Di Filippo.
È il quotidiano – e, in fondo, il titolo che trae spunto da quello di uno dei racconti ivi contenuti ce lo rivela chiaramente – il nucleo di interesse della scrittrice argentina, ma attraverso una rilettura che offre l’evidenza di una voce estremamente fuori dall’ordinario non solo per la capacità di collocazione dell’oggetto o del soggetto osservato, ma anche per lo sviluppo che la relazione tra l’osservatore e il piano circostante determina nell’introspezione che, ironica o caustica o saggiamente chiosata, si rivela la cifra astutamente nascosta dalla Uhart che evidentemente non ama giocare a carte scoperte rivelando uno spirito che si anima di tinte anglosassoni. Moderna nel senso più ampio del termine, cioè nella capacità di porsi di fronte al reale con una sensibilità che è quasi oltre il nostro tempo, poiché in qualche modo lo supera suggellandone i limiti, Hebe Uhart si ritaglia uno spazio tutto suo e rende il mondo femminile un terreno di gioco di estrema complessità laddove se ne vogliano tracciare delle razionalistiche coordinate.
Queste, indispensabili nella logica della normazione maschile del mondo, si aprono a una falla e conducono all’altro piano delle cose. Se l’Alice di Lewis Carroll cadeva, attraverso il suo viaggio immaginario, dentro sé stessa per risalire, quasi definitivamente, al piano superiore più o meno pronta per affrontare la banalità del mondo adulto, qui le donne che guardano sono creature coscienti di una separazione necessaria e che portano nella quotidianità imposta dalla vita che passa sui loro corpi il segno tangibile di una ferita, di una scomposizione insanabile dentro cui è racchiusa la nostalgica constatazione di un tradimento inevitabile: la vita che illude e trascorre e conduce fuori dalle premesse dell’infanzia di una plasmabilità possibile e dentro ingorghi bui, le madri destinate a lasciarci nella nostra intima solitudine che si radica in un angolo a partire dall’ingresso ufficiale nel condotto esistenziale non ancora normato e non attiene al popolamento intorno, perché non è la presenza umana il suo rimedio, perché non c’è rimedio. Recita un significativo passaggio al riguardo: “Ho rimandato il più a lungo possibile l’uso della malvagità necessaria a sopravvivere, ignorando la mia e quella degli altri. Associo la malvagità alla mondanità, alla capacità di discernere immediatamente se una pianta è una falsa camomilla o una margherita, se una pietra è preziosa o meno. Associo o associavo la malvagità alla scelta del disprezzo sulla base di alcuni obiettivi che adesso non mi sono più estranei: il rapporto con le persone, con tante persone, i rancori, il ripetersi di persone e situazioni; per farla breve, sostituire la sorpresa con uno spirito indagatore ha finito per contagiare anche me con la malvagità. Però alcune cose continuano a sorprendermi”.

Dunque, un chiaro nucleo della configurazione della maturità come inevitabile ingresso in uno spazio di acquisizione di strumenti necessari alla sopravvivenza che diventano abitudine, patrimonio genetico, discernimento, perlustrazione a scapito dell’ingenuo pensare il mondo e gli uomini. Della sorpresa e del sogno. Da cui la fatica a sostenere il peso dell’esistenza all’interno di una coscienza che si fa più ampia fino al punto di riconoscersi colpevoli, perché concause, della mediocrità del mondo e dell’ipocrisia inevitabile degli adulti. Perché uno dei meriti di Hebe Uhart è proprio quello di sezionare in passaggi il pensiero critico delle sue donne rivelando la potenziale altra interpretazione di un ipocrita andare. Sul piano fattuale, ciò si traduce in un’analisi lucida delle contraddizioni che artificiosamente smussano gli angoli del proprio processo identitario per renderlo adattabile all’immutabilità esterna. Il confronto con l’esistente che genera riflessioni sui propri limiti, sulle proprie incapacità, su un’urgenza di normazione globale che annienta lo spirito delle creature della scrittrice argentina inducendole a una rivolta sotterranea.
Non si modifica nulla fuori o molto di meno di ciò che sarebbe necessario per creare il germe di un’accoglienza che scardini l’urgenza di un abbandono delle grandi speranze di un tempo andato definitivamente via con gli anni. In fondo, certe rivoluzioni sono quasi impossibili da porre in essere, un po’ per strutturazione della modernità, un po’ per connaturata indole umana. Se le rivoluzioni non possono accendere le pagine più pacate di Hebe Uhart, accade che lo scatto di coscienza per effetto del quale ciascuna delle sue creature si vede nel proprio limitato andare e nel tradimento di antiche istanze infrantesi contro il muro di un ostile reale diventi il conduttore ideale di un’energia residua di ribelle porsi rispetto alla normazione imposta. L’alchemico sostrato che legittima l’impiego del sarcasmo, dell’ironia e, talvolta, regala il maturo saper chiudere il circolo delle cose lasciate in sospeso. Perché l’intelligenza è di chi non ostenta ciò che non è, come le piante che “sono diverse dalle persone” (“Alcune persone, che valgono poco, mettono su un fogliame che impedisce di coglierne la vera natura; altre, generose e con un grande cuore, sono schiacciate e disorientate dal peso della vita”), e deve farsi carico di una normalità che ha il sapore della mediocrità, lasciando andare l’inutile e il vacuo.
E, allora, soccorre, rispetto alla tendenza egotistica del genere umano, lo sguardo che smorza cogliendo il buffo, lo strano elemento che si affaccia e distorce il progredire della conoscenza nel proprio spazio critico, l’alieno, l’eccedenza alla regola che, se anche non c’è, la creiamo noi, privandoci di forme precostituite per accedervi. Questo alimenta un’identità fluida, priva la commozione dell’angolo d’onore sul palcoscenico delle vite narrate, ma senza che il viaggio perda la dimensione della profondità che merita. Così c’è spazio per donne che riconoscono, senza pietismo e senza fasullo orgoglio con beneficio a cascata, i meriti delle madri a cui guardano in parallelo al loro ingresso nella maturità, con abbattimento della gerarchica posizione filiale o genitoriale, per quelle che si infliggono un destino e lo tradiscono, un po’ perché la vita fa i suoi giri e un po’ perché siamo fuori da ogni imposizione, che sia normazione esterna, dovere o obbligo, c’è spazio per il delicato intreccio dei dissapori celati delle relazioni tra donne, dove il cacao si mescola al sale e il risultato ha un sapore di una ricetta mai scritta dove ci siamo tutte nella nostra turbolenta quotidianità, quella in cui si scrive la vita per fortuita combinazione di ingredienti inaccostabili sulla carta normata.
Nel film messicano “Come l’acqua per il cioccolato” del 1992, dice a un certo punto Tita, la protagonista: “Mia nonna aveva una teoria molto interessante. Diceva che, benché nasciamo con una scatola di cerini dentro di noi, non possiamo accenderli da soli, abbiamo bisogno di ossigeno e dell’aiuto di una candela. Solo che in questo caso l’ossigeno deve provenire, per esempio, dal fiato della persona amata; la candela può essere un tipo qualsiasi di cibo, di musica, di amore, di parola o di suono che faccia scattare il detonatore e accendere in tal modo uno dei fiammiferi. Per un momento ci sentiremo abbagliati da un’intensa emozione. Si produrrà dentro di noi un piacevole calore che con il passare del tempo si andrà affievolendo, lentamente, finché non sopraggiungerà una nuova esplosione a ravvivarlo. Ogni individuo deve scoprire quali sono i detonatori che lo fanno vivere, poiché è la combustione che si produce quando uno di essi si accende a nutrire di energia l’anima. In altre parole, questa combustione è il nostro nutrimento. Se non scopriamo in tempo quali sono i nostri detonatori, la scatola di cerini si inumidisce e non potremo mai più accendere un solo fiammifero!”.
Ecco, anche in questa raccolta accade qualcosa del genere o, meglio, deve essere accaduto. L’ossigeno compare qua e là, senza il potere taumaturgico della cinematografia messicana. Tutto qui, in fondo, si è compiuto, anche quando pare in essere: gli incontri, le passioni, una parola. Un ricordo che lì ci conduce. Tutto ha nutrito l’anima, ma tutto si svolge fuori dai facili luoghi comuni legati alla superficie dell’immaginario sudamericano. Qui gli ardori fanno i conti con la fine, non con la forza immanente del presente, con la nostalgia di un abbandono, con lo sguardo posto in là con gli anni che invade ogni pagina e restituisce la ricchezza del sapersi ancora e per sempre piccole donne.
Mindy