
C’è questo locale bellissimo a Napoli, si chiama “Perditempo”. Ultimo (o forse tra gli ultimi) punto di ritrovo per quella parte di Napoli alternativa che non si identifica nelle istituzioni consumistiche e delle mode. Quelle che, purtroppo, a questo ultimo giro abbiamo visto invadere anche la città partenopea. Ahimè.
Per fortuna qualcosa resiste.
Siamo passati a Napoli in questo principio d’anno, a chiudere queste feste natalizie che proprio “feste” non sono state, concitate e caotiche. Napoli è la città natale di una parte di Ork, ma questa volta un motivo in più ci portava lì: un affetto importante, un fratello da ritrovare.
Ci siamo visti lì in quel locale, abbiamo bevuto qualche bicchiere di vino e parlato, e riso. Ricordando anche cose del passato. Ci siamo tornati poi nei nostri successivi giorni trascorsi a Napoli.
Il Perditempo è un bar, una piccola libreria underground, un posto che ancora resiste al trionfo consumistico che c’è intorno. E c’è sempre buona musica, sparata forte da grandi casse nell’ombra del locale, tra manifesti e adesivi tutt’intorno che riportano alla cultura punk e rave, i baristi sono ex ragazzi come noi che hanno conosciuto quel movimento degli anni ‘90 (a Napoli era molto forte) e la gente che si ritrova lì, più giovani e più vecchi, una minoranza che non ha voglia di riconoscersi nella legge imperante fuori, del consumo. Tutto questo mentre Napoli, anche lei, si riempie di locali “street food”, in linea con questo tempo di food networks e chef che vanno in tv, l’era del dominio dell’industria del cibo spettacolo (perché che cosa volete di più di una bella cartolina di Napoli con le sue bontà gastronomiche a portata del turismo danaroso?), ormai da un po’ moda del momento, e piega la sua anima al mito americanoide del compra-consuma-spendi, pronta a vendersi ai migliori offerenti.
Sembra assurdo vederla così. Ma ormai tutto o quasi va in quella direzione.
Torniamo in quel locale un po’ di volte in quei giorni (è un po’ una piccola oasi felice quando siamo lì), beviamo vino e ascoltiamo musica nuova. Quella che non passa nei grandi canali. Quella underground, che ancora cerca qualità e non le vette delle classifiche.
Uno di questi dischi mi capita tra le mani lì dentro, quello che oggi portiamo qui sul nostro pianeta.
Oltre ai libri si trovano anche cd in vendita nel locale, produzioni indipendenti e autoproduzioni, sia italiane che estere, musica sotterranea che non vedrai mai finire nelle hit-parade…Così mi metto a rovistare, e mi colpisce questa strana copertina: oscura, stranissima, una sorta di indefinito paesaggio disegnato a china simile alle cose che facevo quando avevo sedici anni, tra i Pink Floyd e il dark. Non c’è il nome del gruppo sul disco, del titolo neanche l’ombra, solo quest’immagine strana e inquietante che si rincorre fuori e dentro il digipack un po’ consumato dal tempo. Sembra una specie di pelliccia mostruosa, di qualche mostro venuto fuori magari da racconti scandinavi. Tempo fa era uno dei metri con cui scoprivo nuova musica: mi colpiva una copertina (è successo con diversi dischi), magari il tizio del negozio in cui andavo lo metteva su un attimo per farmi sentire che musica c’era dentro, e il gioco era fatto! Se mi piaceva, mi piaceva al primo ascolto.
Anche con questo disco che oggi arriva su Radio Ork è stato amore al primo colpo. Ma stavolta non ho avuto anteprime: il dj stava già passando altra musica, si è limitato a darmi qualche informazione. Veloce e semplice, immediata, senza dilungarsi in roba da critici: mi è bastata, però, a farmi venire in mente un altro disco che ho apprezzato tantissimo, Vacante, dei Calista Divine, anche questo preso “a scatola chiusa” in un mercatino dell’usato anni fa. A Bologna.
Così ho pensato di portare a casa anche questo cd.
“Hai scelto bene!”, ha commentato il dj, “poi mi dirai”.
E infatti. Al primo ascolto gli si dà ragione!
Marlone dei To Kill a Petty Bourgeoisie è il disco che oggi vogliamo portare qui sulle frequenze di Ork. Ci piace come sempre dare voce alle piccole perle trovate nel sottobosco, quelle che brillano e suonano benissimo, non considerate dalla grande massa.
Loro sono un duo nato a Minneapolis, attivo dai primi anni duemila, il disco è del 2009 (sfortunatamente solo ora è giunto a noi). Jenha Wilhelm (voce, polistrumentista) e Mark McGee (polistrumentista, programming) si muovono nella scia di un certo post-industrial di fine anni novanta e di una musica elettronica che ha sempre il suo centro propulsore in Bristol (Third Eye Foundation, Matt Elliott, Crescent, oltre che, ovviamente, Massive Attack e Portishead), e riscrivono in forma misteriosa e sofisticata un genere che dai primi anni duemila si è fatto strada fortemente, tra Glitch, Trip-hop più spinto, Noise, Experimental e Ambient nelle sue varie forme, sempre nell’ambiente elettronico (dentro anche nomi grossi come i Sigur Ròs e i Radiohead, e certe esperienze soliste di Thom Yorke), e infine Dream–pop e Post–rock.
Anche queste le parole magiche usate dal dj del “Perditempo” per cui ho pensato che potesse essere qualcosa di simile a quello preso qui dei Calista Divine.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gruppi e musicisti che si muovono in quest’onda, con suoni e concezioni sperimentali (sulla scia delle composizioni oblique del musicista francese Ghédalia Tazartès, scomparso nel 2021) sempre più spinte, creazioni sonore sempre più decostruzioniste tra musica concreta e Ambient che superano definitivamente l’idea della canzone andando verso linguaggi astratti. Verso la fine del primo decennio Duemila i Nostri in un certo senso riportano tutto a casa, partendo da quest’onda per creare una visione noise–melodica (in particolare proprio con Marlone) personale e davvero straordinaria. Degna di nota nel polverone Avantgarde.
I To Kill a Petty Bourgeoisie avevano esordito sulla lunga distanza nel 2007 arrivando nelle file dell’americana Kranky. Il primo album, The Patron, offriva uno scenario più estremo e radicale rispetto a Marlone, violento e cupo: il duo di Minneapolis esordiva con un abissale electro–noise allucinato che ondeggiava su un glitch seminale e alieno, versione più buia di quello degli islandesi Mùm, atmosfere asfissiate Dark ambient e Dream (con la voce di Jenha Wilhelm a veleggiare sonnambula tra paesaggi alla “Twin Peaks” e i Cranes), ricordi Apocalyptic folk e Martial industrial e scenari criptici, dove la melodia era sventrata da strati di elettronica noise, parossismi sonori iper-accelerati, tappeti di frastuono bianco che rendevano tutto irriconoscibile, astratto, facendone perdere i connotati con un effetto disorientante. Simile a quello dei quadri di Tanguy. La musica rimaneva sul fondo, disturbata da queste frequenze laceranti, trascinandosi su questi tappeti di rumorismi electro–glitch, creando qualcosa di sub-normale di una potenza espressiva spaventosa. Del resto è proprio questo il bello loro: la capacità di mettere insieme musica e sperimentazione creando atmosfere ipnotiche.
Col primo album esplodevano trasfigurando il suono con uno spirito che nel fondo era quasi punk.

Marlone fa un passo indietro (o uno avanti), a recuperare la musicalità che in The Patron era sotterranea. E a tradurre il suo cinismo in una malinconia onirica. Nel secondo album (del 2009) cambiano un po’ le carte in tavola, impostando un altro registro sonoro. In realtà solo in parte: perché Marlone ammorbidisce il mood, questo è vero, ma rappresenta l’evoluzione dell’album precedente.
È un continuum rispetto al primo album, che va in una direzione più organica, complessa, musicale.
Nei due anni intercorsi tra l’uno e l’altro disco il duo ha avuto una bella attività live, suonando anche con altri musicisti e allargando il suo spettro sonoro. Che si fa più complesso, più ampio e definito, superando il guado della sperimentazione tout court e andando verso un’idea più chiara di “song”, alla Pink Floyd o Massive Attack. Dopo l’esperienza live (da cui era nato un cd autoprodotto uscito nel marzo del 2008) guarda alla forma più strutturata della (quasi) band, e per il secondo album intervengono in studio diversi musicisti (Aaron Finch, Jason Wasyk, Andy Clayton, Jesse Ackerley, Andrew Berg, Tom Helgerson) a dare il loro contributo.
Il risultato è spettacolare, lascia senza fiato. E calamita dall’inizio alla fine verso un mondo altro, una nuova dimensione dello spazio che riporta agli scenari complessi creati a loro tempo dai (già citati) Radiohead con Ok Computer e Kid A (ma anche i successivi), sia nelle atmosfere che in fatto di composizione e di construct musical-letteraria (come l’uno e l’altro conserva un’unità di fondo che si snoda lungo le tracce, a parte qualche simil-campionamento sparso e rimando sonoro), ma anche a certe atmosfere goticheggianti disegnate da Sir Glen Johnson coi suoi Piano Magic (Artists’ Rifles in particolare).
Ritorna a un discorso musicale, la musica è in primo piano (compaiono persino le chitarre, impensabili nel disco d’esordio, sia rumorose che pulite, e la batteria acustica a intervallarsi con le drum machines), e tutto, dai synths agli effetti a ogni tipo di suono, va in un’unica direzione a creare una tela elettro-atmosferica magica e notturna.
Sono canzoni in primis, come dicevamo, a loro modo, mini-suite dark ambient, serenate post-industriali che richiamano paesaggi liquidi, canti di frontiera che più che dalle terre americane sembrano provenire dall’Est Europa, quasi delle preghiere di una civiltà che ha attraversato tutte le forme dell’industrializzazione e torna all’origine. Post-industrial, appunto. Ninne nanne elettro-acustiche rinchiuse nella stanza da tempo che conservano solo il loro silenzio, e cancellano per un attimo il tempo e lo spazio: il colpo all’anima arriva già in apertura, nel passaggio in tre fasi – come in Fisica – dalla prima traccia, “You’ve Gone Too Far”, vero capolavoro dell’album che da sola vale l’acquisto del cd, attraverso i reattori indie-rock / dark un po’ bristoliani del secondo pezzo, “The Needle”, fino alla terza traccia, “Villian”, nenia gotica con la voce che sussurra nella stanza buia un pianto vittoriano su fraseggi di cello e atmosfere Gothic Metal / Death-Doom alla Third and The Mortal. E la vocalità proprio alla Kari Rueslåtten, oltre che le chitarre lancinanti, a chiudere questo viaggio introduttivo, come fossimo sospesi in una linea di confine tra sonno e veglia.
Una sensazione del genere l’ho avuta con un altro disco che ho amato tantissimo, Sortie dei Divine (non Calista, citati prima), a cui l’album dei To Kill a Petty Bourgeoisie somiglia da vicino.
Tutto il disco è avvolto da un’atmosfera irreale, in un liquido amniotico fatto di nebbia sottile, come retaggio di qualche catastrofe industriale (non ho potuto fare a meno di pensare a “Silent Hill”, il videogioco, con la città fantasma avvolta nella nebbia e il protagonista che doveva correre per salvarsi), e si cammina lenti lungo questi paesaggi post-fantascienza, di impronta musicale industrial, indie, ambient dark, trip hop. Il suono si fa rarefatto, fantasmatico, evanescente, tutto torna a forme più quiete. È un disco di atmosfere, che porta le idee dell’album che l’ha preceduto su una patina notturna. E scorre lento. Anche la voce di Jenha Wilhelm si fa più angelica, eterea (“Too late… too late… You’ve gone too far” parla chiaro sin dall’inizio), sospesa tra Dream-pop lynchano e Goth da camera, veleggia su queste impalcature sonore complicate come in una bolla, fondendosi ai synths e ai loops e trasfigurandosi a tratti in pura essenza sonora. Come gli altri suoni, da quelli riconoscibili a quelli accennati al puro frastuono (delle chitarre e dei feedbacks). Non ha la violenza lacerante e immediata del primo album (che pur nella sua cripticità arrivava dritto all’osso come un disco punk lasciando ai bit-crusher il compito di far tutto a brandelli), il suono è ricercato e attento, e c’è un lavoro di produzione (dalla fase di creazione, agli arrangiamenti agli ultimi rimaneggiamenti in consolle) davvero notevole, sorprendente, che permette all’album di volare parecchio alto. Qui il registro sonoro si definisce. Maturo e attento. L’elettronica attraversa lo spazio acustico, dei suoni acustici, come un filo che unisce le parti di una collana (synths mesmerici, suoni smaterializzati, lampi elettronici, loops trip hop insistenti che si rincorrono sfaldandosi, noises di fondo e rigagnoli electro-glitch), e si percorre lenti lungo lande desolate post-moderne (immaginate Cronenberg che si sia svegliato nel 2009) e paesaggi sonori di una complessità stupefacente, su un filo ininterrotto elettronico – noise–gaze – ambient dark che attraversa il disco come un battito cardiaco latente.
I pezzi dell’album sono come dieci movimenti di un’unica opera elettronica/ industrial, un unico quadro oscuro musicale (e post-musicale) che ricorda le opere di Giger, un’architettura post-moderna perfetta in cui si incontrano più parti, più facce: atmosfere dilatate oniriche, canzoni o canti, “ballate” elettroniche e elettro-acustiche, suites dark e improvvise parentesi di ambienza noise-industrial, oscillatori e rantoli di pad, respiri elettronici, suoni incorporei, pulsazioni di synth e suoni che sembrano provenire da una civiltà aliena, memorie Trip hop e un’elettronica che dall’America, da cui proviene il duo, sembra puntare dritta verso la Scandinavia. E costruzioni armoniche che vanno indietro e vogliono ripescare qualcosa di atmosferico e semplice (compresi i synth strings che nessuno usava più).
Un’unica tela, un unico racconto che riporta in musica la scena di una civiltà post-industriale.
Come fecero a loro tempo già Thom Yorke e i suoi col loro manifesto elettronico del 2000 (chiaro già dalla copertina). E nel fondo, sullo sfondo i Massive Attack di Mezzanine.
Un viaggio ipnotico, mesmerico, dal tono cupo e sospeso. In un altro tempo. Forse futuro.
Che non ammicca alla costruzione cerebrale che vuole colpire a tutti i costi, dove si perde l’emotività. Qui il discorso emotivo è forte, fondamentale. È musica viscerale, anche nella sua elaborazione: mai un discorso intellettualoide fine a sé stesso, semmai ha l’intensità di fondo di un disco dark dei primi anni ottanta, ma scritto con un altro linguaggio. Più moderno.
A cui non sapresti dare una collocazione temporale precisa.
Un’ipnosi, come quelle delle nubi che lo avvolgono. Bianco e nero, sicuramente. O coi colori soffusi di una civiltà che si muove nel mondo raso al suolo dall’età industriale.
Dicevamo della linea di confine tra sonno e veglia: è lì che si compie il viaggio, in orizzontale.
Il suono di una civiltà post-industriale arrivata al collasso. Che deve tornare alla musica. Per trovare una lingua.
Era il 2009, un anno prima era iniziata la famosa “crisi”, i To Kill a Petty Bourgeoisie presagivano uno scenario che nel giro di poco più di dieci anni si sarebbe verificato.
E l’hanno raccontato in musica, in questo disco futuribile e evocativo.
Che dire? Davvero notevole.
Un album che trascina in un’altra dimensione. E sembra venir fuori da un tempo futuro, non ancora raggiunto.
Un futuro prossimo, che è quello in cui stiamo vivendo.
La capacità profetico-musicale di questo duo: ecco, in Marlone la mettono perfettamente a frutto!
Ha l’aria di quelle produzioni ultra-sotterranee nate negli anni duemila, di quelle micro e auto-produzioni nel terreno dell’elettronica che guardano verso i linguaggi sperimentali, ma poi volta la testa con una capacità di muoversi verso gli anni novanta della prima elettronica indipendente, quando la musica elettronica usciva fuori dagli schemi del pope della discoteca e iniziava a darsi delle sue connotazioni di identità, sempre più alternative.
Negli anni novanta nasceva tutto questo.
Nel 2009 i To Kill a Petty Bourgeoisie lo scrivono su una tela più moderna.
Una linea meridiana tracciata tra il passato e attraverso un presente prossimo e il futuro che vediamo sempre più da vicino.
Un lavoro davvero interessantissimo, una bellissima realtà sonora che nonostante gli scenari foschi fa ben sperare. Almeno che qualcuno voglia recuperare qualcosa di umano.
Basta tornare alla musica.
Come Jenha Wilhelm e Mark McGee hanno capito perfettamente.
Mork