Invito al viaggio: immaginari a confronto.

Il pianeta Ork ricompare per segnalare tre testi che ritiene, in qualche modo, letture indispensabili, nei limiti in cui un libro lo possa essere per la generalità dei lettori. Qui siamo sempre stati convinti che ciascuno abbia la specificità e la bellezza del proprio percorso, con una selezione di classici dalla propria, piuttosto che di pubblicazioni contemporanee, che sono lo specchio della propria ricerca. Prima di introdurvi alla presunta indispensabilità delle nostre scelte, ci preme condividere una riflessione: non sempre il talento certo e la formazione culturale di indiscutibile valore di un autore rappresentano scientificamente le basi per la riuscita di un testo. Perdonate la banalità dell’osservazione. Il lettore non è un automatico aspiratore di narrazioni e, se ha dalla sua un pizzico di sensibilità e una buona abitudine all’atto del leggere, è capace anche di scorgere che l’autore, perso in altro che attiene probabilmente al suo vissuto e al momento in cui decide di scrivere una storia, sta rivolgendosi ad altro, piuttosto che all’altro. Questo cambia coordinate, intenti, destabilizza equilibri potenziali e il lettore, dimenticato, lentamente si allontana a malincuore e cerca un’altra storia. Quella che qui noi oggi abbiamo scelto di portare attraverso tre classici: “Catasto magico”, di Maria Corti, un fuori catalogo dell’Einaudi, “Teseo”, di André Gide, edito da Mattioli 1885, e la rivisitazione dell’epopea di Gilgamesh ad opera di Giovanni Calcagno che oggi rivede la luce per merito della casa editrice Mesogea.

Il testo della scrittrice milanese è un omaggio alle origini della narrazione, alla indispensabilità del congiungimento del mito, dunque delle storie tramandate in quanto già generate, con l’attivazione di un immaginario presente che, non prescindendo dal primo, in qualche modo lo travalichi, vada oltre, conduca alle premesse di un ancora inesistente. Ricordare per dimenticare quel tanto che basta a rammentarci la straordinaria abilità del genio creativo narrativo di agire sul reale trasformandolo. Se è vero che il luogo generatore di storie scelto da Maria Corti è l’Etna, è altrettanto vero che esso è assolutamente un significante di estrema duttilità fino a diventare espressione dei poli opposti delle esperienze che attraversano il piano delle nostre vite, riconducendo il ricorso alla sua capacità evocativa all’alternanza di bene e male di cui è impastata l’esistenza di ognuno. In una splendida fusione tra narrazione e vita. Lo recita chiaramente un passaggio: “L’Etna è un’immagine di quell’ampia disordinata fiumana di possibilità, che alla fine possono dare un senso totale, esatto del vivere”. Il tutto si accompagna al costante riconoscimento di una parzialità della nostra dimensione terrestre, alla coscienza di essere parte di un’ampiezza che involge la natura di lucreziana memoria e dentro cui siamo viandanti stranieri che vivono lo spazio di un tempo che ci travalica abbondantemente rendendoci infinitesimali punti di un universo che incombe nella misura in cui non siamo capaci di giocarci bene le nostre carte di esseri limitati e rispettosi e ambiamo al potere e al dominio quale miserevole forma di conoscenza.

Più incline a una riflessione intima dello stare al mondo, nella logica della fatica della conciliazione degli opposti che appartiene alla sua poetica, André Gide riprende il mito di Teseo, regalandoci pagine di rara bellezza, pur nella scelta, o forse proprio per questo, di imbrigliare il mito nella limitatezza del reale, nella recente pubblicazione di Mattioli 1885 (traduzione di Livio e Bruno Crescenzi). La complessità del mito viene efficacemente smontata allo scopo di lasciare che a prevalere sia ciò che di umano appartiene per natura ad esso. Non ci si dirige verso un’intoccabilità o una giustificazione, magari sapientemente avvolta da una narrazione che si erge in un tentativo di terzietà, dell’umano procedere di Teseo, ma si scende a patti con la Terra, con gli umori, le ambizioni, le fantasie erotiche, le ambiguità, gli interessi di chi sa di dovere fare tesoro della propria astuzia per sopravvivere alle insidie del mondo. Teseo non è uno strenuo difensore di valori di rigorosa equità o espressione di limpido pensiero che muove l’agire senza calpestare il più o meno fragile andare del prossimo, ma colui che sa di dovere garantire la sopravvivenza della sua stirpe e, in funzione di ciò, sacrifica la correttezza dei rapporti interpersonali anticipando le origini di un’adesione al pubblico astutamente declinata che sarà di una certa civiltà romana. Teseo rifugge la “saggezza sovrumana” di Edipo e si dichiara “figlio di questa terra”. Recita un passaggio: “Io resto figlio di questa terra e credo che l’uomo, comunque egli sia e per quanto corrotto tu possa giudicarlo, debba giocare con le carte che ha”. Conoscere i piaceri terreni, agire coerentemente a un progetto che è della citta di Atene, muoversi tra i valori collettivi e i bassifondi istintuali dell’esistenza: gli alti e i bassi di Gide diventano funzionali a una narrazione umana delle origini della civiltà classica, ponendosi il testo come ulteriore punto di congiunzione tra la memoria, il mito, il racconto e la vita medesima.

Ultima segnalazione, ma non per importanza, riguarda un piccolo quanto prezioso libro, edito da Mesogea, che ripercorre in una rivisitazione, più che in una riduzione, l’epopea di Gilgamesh per mano di Giovanni Calcagno che ne ha fatto una notevole base di partenza per la costruzione di uno spettacolo teatrale a cui Ork ha avuto il piacere di assistere nella città di Modena. La storia è quella riportata alla luce due secoli fa negli scavi della biblioteca di Assurbanipal a Ninive. Ce lo dice l’autore nelle note di introduzione. È la storia di un potente re che, perso il suo più caro amico, Enkidu, chiamato dal volere degli dei ad arrestare la furia del primo e a porsi nel corso del progredire delle vicende bellicose e umane quale suo doppio, sostegno e mancanza, opposto alternarsi del mutevole stare al mondo del primo, si mette alla ricerca del segreto della vita eterna. Il ritmo scandito quasi metricamente nella rappresentazione a teatro dell’epopea in questione, unitamente all’estrema fisicità dei corpi che tradisce in una dominanza scenografica il gioco di forza dei due, ma anche l’estrema fragilità del loro stare al mondo, conferiscono alla nostra lettura quello sguardo in più che ne completa la drammaticità. Perché di un dramma si tratta, ma con un risvolto che è un cambiamento intimo che offre alla sconfitta dell’impossibilità dell’eternità un altro sapore. È la coscienza del limite dell’esistere che sovverte i canoni del desiderio e rende l’unica vita conosciuta, quella terrena, latrice di un valore inestimabile, perché “nulla permane”. Ed è esattamente la sua fugacità a restituirne la grandezza. E la capacità di Gilgamesh di introiettare tutto ciò l’opportunità di una crescita umana, l’unica vittoria che si possa portare a casa.

Detto ciò, non crediamo serva molto altro a farvi comprendere ulteriormente il valore di queste e delle altre pagine. Solo un invito: il tempo è prezioso. Scegliete bene le vostre letture: perché di donne e uomini dal pensiero libero ci sarà sempre più bisogno.

Mindy

Prossime tappe e immancabili classici: nuove rotte.

Questi i nostri prossimi viaggi.

[Piano B edizioni, Nottetempo, TerraRossa edizioni]

Di questi altri, invece, già letti, potremo soltanto dire qualcosa. Perché di fronte al classico recensire è puro esercizio di superbia. Se l’approccio è quello meramente appassionato come il nostro.

Intanto, Ork consiglia.

[Einaudi, Mattioli 1885 books, Mesogea]

“Il viaggio”: omaggio di Mork a Fabrizia Ramondino.

“L’intuizione del legame indissolubile tra lo spazio e il tempo è stata l’esperienza più radicale della mia infanzia, quella che mentre mi rendeva consapevole dell’Io, mi iniziava alla morte – ma, nonostante l’indissolubile legame, lo spazio era più esterno, più interno il tempo, sicché alla consapevolezza dell’estrema separazione si aggiungeva quella di tutte le altre provvisorie e mutevoli.” (Fabrizia Ramondino, “In viaggio”, Einaudi)

“Il viaggio”, pastello su carta, Mork.

In viaggio: a lezione di futuro da Fabrizia Ramondino.

Ci siamo chiesti da dove potessimo ripartire dopo l’interruzione estiva e dopo il crollo delle illusioni di cui avevamo infarcito il nostro pensare il futuro e noi in esso. Tralasciamo le ragioni che ci avevano spinto a farlo: esse attengono in una certa misura alla sfera personale e, pertanto, qui rilevano molto poco. Spostiamo, piuttosto, l’asse sull’esito del processo che, preceduto dal desiderio unico di leggere e di farlo secondo coordinate differenti rispetto al passato, in una forma estremamente libera e anarchica, se volete, laddove molto di quello che circola ci lascia oramai indifferenti, dopo l’inganno da noi “voluto” e, dunque, non subito, non ha comportato l’abbandono di questo spazio. Ork così rimane nel rispetto di tempi e scelte personali che saranno di lettura e di scrittura in cui qualcuno potrà ancora ritrovarsi. Cosa può avere ancora un senso in un tempo in cui molte delle certezze su cui avevamo fondato la nostra vita devono essere assolutamente ripensate? Persino la democrazia. Persino il rapporto con l’altro.

Periodo storico di mutamento e transizione e, in qualche modo, periodo personale di Ork della medesima specie. Questo equivale a dire che, nel condurre qui un testo piuttosto che un altro, non solo qualcuno potrà ritrovare qualcosa del proprio percorso per effetto di una coincidenza di coordinate di viaggio che identificano una medesima rotta, ma anche che certamente ci sarà un nucleo, nelle nostre narrazioni, che non potrà non avere un sapore collettivo, qualcosa che ci riguarda tutti e che è oramai imprescindibile se quel futuro vogliamo davvero in qualche modo garantirlo ai nostri figli. In fondo, il libro con cui scegliamo di ripartire, “In viaggio”, di Fabrizia Ramondino (Einaudi editore), ha accompagnato un’estate profondamente diversa non solo per una serie di acquisizioni di coscienza a cui dare un seguito comportamentale non è esattamente semplice, una volta rientrati, ma anche perché alcune pagine di questo speciale taccuino di viaggio sono state lette sotto scrosci di acqua di una tale violenza da capovolgere il senso originario di una macchia mediterranea fino a un attimo prima già provata dalle arsure di un clima che non lascia spazio a riflessioni politiche di altro genere ponendosi, l’urgenza climatica, quale priorità di sopravvivenza (essendo tutte le altre tessere di un unico domino). Dunque, una dimensione vegetale (e non solo) che, per eccellenza, nella stagione estiva, vive il suo trionfo per cedere poi alle naturali logiche della fine, nell’esplosione che si celebra nel mese di agosto, oramai contiene sin dal principio un eccesso immediato che ha il sapore della malattia e della fine prematura. Un’alterazione delle consegne del mondo naturale. Come tutte le volte in cui ci ostiniamo a mangiare un frutto fuori stagione e ne constatiamo l’inesistenza nell’assenza di sapore, nel guasto interno, nella forma irriconoscibile, nello svuotamento dei canoni di bellezza.

Ogni cosa ha un suo tempo, mi insegnava un nonno contadino, e volerlo fuori da quel ritmo è forzare, violentare, correre più rapidamente verso la fine. È chiaro che siamo lontani dal mondo di Fabrizia Ramondino che, forse, a ben guardare, è stato quello popolato da una generazione che, a cavallo tra l’immediato secondo dopoguerra e un certo edonismo celebrato e ostentato, sopra la coscienza calpestata, degli anni a venire fino ai nostri giorni, ha avuto abbastanza presente l’irrecuperabile direzione verso cui il sistema ci stava traghettando senza saperlo depositare nel kit di salvataggio dei posteri, quel sapere e l’opportunità di un cambiamento lasciati lì a marcire tra gli ideali di un ’68 tradito dai suoi fautori. Ci dice la Ramondino: “Il camminare di allora non era uno sport, non era organizzato da agenzie, da club alpini o di amici della natura. Non si pensava alla salute, alla forma, alla linea. Discendeva per via diretta dalle esplorazioni infantili reali e immaginarie, favorite dalla vita in campagna o dalle ampie zone cittadine non ancora cementificate, dalla lettura dei libri di avventure, dal bisogno di fuggire il mondo degli adulti dove tutto era sempre troppo angusto perché «troppo significato» – e i segni prevalenti erano quelli dell’utilitarismo e del potere”. In fondo, non ci racconta un mondo ideale. Al contrario.

È evidente che la scrittrice ha chiara la realtà, quella che si afferma come tale perché appartiene al mondo adulto, ne ha chiara la miseria e ne cerca e ne sostiene non una fuga, per quanto l’espressione esplicita usata parrebbe contraddirci, ma un suo superamento: vederne i limiti e non farsene travolgere. Come fare? Ecco che la letteratura ci viene in soccorso, unitamente al potenziale dell’universo infantile: l’immaginario dei libri e la capacità immaginativa umana sono le vie, qualcosa da cui attingere per vedere quello che ancora non c’è, ma potrebbe accadere. E cosa manca perché accada? Forse, che a pensarlo quel mondo che non c’è sia più d’uno. Il viaggio della Ramondino è la possibilità di un incontro, tutto ciò che la realtà contiene come potenziale da esplorare: uno storpio, un nano, un gobbo, i fiori, i marinai, i signori, il sole, le finestre senza tende, le imposte dorate socchiuse per la siesta, il vino, il canto, il ballo in piazza, le storie raccontate e, forse, anche vissute, i chierici vaganti, i contadini e i giovani, gli ostelli e le docce, le tende e i libri usati, il flauto, lo scacciapensieri. Recita un passaggio: “Eravamo, senza saperlo, gli ultimi dandy. Non solo per la sottile ricercatezza che si celava sotto l’incuria apparente dell’abbigliamento, per il nostro spirito antiborghese, per l’esibizione della nostra diversità, ma anche per un autentico spleen, una dolorosa consapevolezza del nostro sradicamento in quell’Europa che si ricostruiva contro di noi, ché i capicantiere erano gli stessi che l’avevano distrutta poco prima”.

Lì era ancora possibile riconoscersi, distinguere il fratello dall’infiltrato, rifiutare una solida cultura nazionale intrisa di retorica e preferire la dimensione cosmopolita e coltivarla leggendo poeti e narratori stranieri, pur sapendo che tradurre sarebbe stato un tradire, ma non per questo un finire. Sarebbe stato sempre possibile cercare una lingua propria, originale, autentica, segreta, in cui riporre il senso mancato da quel nugolo di autori in cui si riponevano ardite speranze. Viaggiare poteva essere senza meta, farsi sorprendere dalla meraviglia della comparsa di una piazza, dialogare con una zucca appesa a una finestra, essere lo specchio, complice un incrocio di sguardi, di una madre e di un figlio paralitico, fluttuare nel tempo, essere riconosciuti come amici perché, se gli occhi si aprono al mondo, anche questo ti appartiene, in forma amicale o parentale. Certo il taccuino non può non raccontare anche una storia personale. E lì, in quell’angolo, confluisce l’infanzia, regno supremo della Ramondino, terra ciclica di morte e rinascita all’interno della quale garantire un movimento idoneo a preservarla dalla minaccia costituita da “troppa famiglia”.

Esaltazione di odori, sapori, pensieri assorbiti dalla terra, trionfo di vita per poi cadere nel sottosuolo prima di rinascere a nuovo esistere attraverso i rumori e il comparire scenografico del mondo sopra, senza bisogno di un atto creativo, perché sarebbe bastato reimparare ad aprire gli occhi e guardarsi intorno. Mantenersi integri, dunque, prima di separarsi: l’adolescenza e il desiderio di andare via. Perdere l’unità, il segreto riposto in un luogo finito e cercare fuori un altro modo di riconoscersi. Ricerca e sperimentazione, nostalgia che si fa malinconia, crescita e mondo adulto, recupero immaginativo e nuove speranze. Imparare a fare navigare sulle stesse rotte spazio e tempo: non più uno spazio prevalentemente esterno e un tempo più interno, ma la necessità di un accordo di fronte alla coscienza dell’Io e al prospettarsi della morte che non annienta la condizione felice del vivere, ma le restituisce senso nel completamento di profondità che le conferisce atteggiandosi ad ombra della consapevolezza della sua fine. Malinconia, dunque, per restare al flusso nominale che abbiamo lasciato correre sopra, ma non solo. Perché il singolo si avvicina all’altro in quella opportunità collettiva di pensare il futuro non fidando “nelle magnifiche sorti e progressive”, ma passando attraverso la coscienza di “una comune derelizione”, cosa che, pur malinconicamente andando, chiaramente necessita di una forza di specie che abbiamo dimenticato per strada e che con l’avvento del capitalismo abbiamo definitivamente accantonato inondandoci di inutilità da bisogno indotto.

Quella forza “che conosce la sua strada al buio, porta il lume dietro, a sé non giova, ma rischiara chi la segue, affinché raggiunga la meta, un uomo, un bambino, un libro, la morte – la quale, come tanti hanno testimoniato, ha un legame privilegiato con l’eros, con la maternità, con i libri – un legame vitale”. Dunque, non più un’unità, un’inscindibile appartenenza a un tutto, un’estasi piena, come il fanciullo con l’universo naturalistico che la sua storia personale plasma a regione dell’anima, ma una vicinanza all’altro, che nasce dalla separazione, dal sapere chi sono e dal desiderio di scoprire chi non sono io, perché la verità e la vita possono essere anche “altrove”, fuori dalle proprie mancanze, senza per questo dimenticarle. Equilibrio complesso o molto più semplice delle nostre menti iperstrutturate, se il cero di Saguarao lo sa meglio di noi, che offrire alle civette il luogo in cui nidificare salva le sue uova e celebra l’ostinazione a vivere anche nelle condizioni più ostili, una tenacia vitale che resiste alla cancellazione del vivente. Un beneficio generale. Una vittoria comune. Esiste una piccola isola al largo del golfo Saronico, non molto distante da Atene. Poco popolata nel corso dell’anno, vive il suo momento di breve celebrità nel corso dei mesi estivi, per merito del mare verde e incontaminato. Se si ha la curiosità di una mancanza laddove tutto è acqua e spiagge e locali e turismo, ci si inerpica per un sentiero e si raggiunge un piccolo villaggio da cui si domina il mare e il tempo assume le fattezze delle lapidi bianche e luminose che popolano il cimitero. Lo si ritrova lì, questo ordinato e quieto agglomerato di anime, al termine della salita, ricompensa e senso. Vita che non corre tra urla e schiamazzi, ma che nel silenzio del vento che ritempra dalla fatica rievoca un sapere trascurato e il dovere di scarnificare l’opulenza. Quasi un recupero di dimenticanze, un dovere, si perdoni l’insistenza, non un obbligo, di frugalità nello spirito di accesso alle cose della vita. Una diversità molteplice che non trova per ora un punto armonico se non in regioni privilegiate dell’anima e dello spazio.

Mindy

“In viaggio”: prima tappa del rientro.

Se viaggio deve essere, proviamo a restituirne un primo senso che travalica la dimensione fisica dello spostamento. Quella capacità dello sguardo, quel punto esterno che sollecita un insospettabile “attivismo” intimo che apre a nuove visioni. Lungo le tracce di un taccuino di viaggio magistralmente reso dalla scrittura di Fabrizia Ramondino.

Prossimamente. Coi nostri nuovi tempi.

Principio 2022 su Ork: fine 2021 e ripartenza.

Il pianeta Ork riprende il suo viaggio dopo una pausa assolutamente indispensabile in relazione alla fatica e alla velocità di questo tempo che pare risucchiarci tutti in un punto di non ritorno. Lo fa con qualche pezzo di coscienza in più, il che non significa necessariamente con una maggiore definizione di “pieni”. Al contrario. Come abbiamo avuto modo di accennare in contesti più personali, il tempo del Natale appena trascorso è stato, più che in passato, un tempo dello stare, senza alcuna pretesa che non fosse quella di ascoltare un miscuglio di voci non sempre in sincrono tra loro. Accettare l’idea di non appartenere a niente se non a sé stessi, con la bellezza di un ancoraggio fedele, ma anche con l’evidenza di un Sé che si smarrisce ancora troppo facilmente dietro alle battaglie quotidiane. Insomma, sapere di essere fuori da ogni etichetta, ma anche che l’umano necessita di una forma, quantomeno transitoria, per essere colto e compreso e che, talvolta, la fuga dal definito è un ottimo alibi per correre illusoriamente via dalla vita e dalla sua finitudine. Allora, cosa fare? Naufragare, ad esempio, per qualche giorno nell’eternità dell’arte. Riprendere la poetica di De Chirico e Savinio, farla balzare ai nostri occhi, attraverso una mostra che ne esplora il carattere irriverente e provocatorio inserendo una parte della loro produzione artistica in un contesto più ampio che racconta l’Anima avanguardista della Parigi cosmopolita tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta: questo è lo spirito dell’interessantissima e curata mostra allestita alla Fondazione Accorsi Ometto di Torino fino alla fine di gennaio (https://www.fondazioneaccorsi-ometto.it/…/parigieraviva-2/). Non è una fuga, ma un tentativo di decifrare quel Sé passando per la seduzione dell’ambiguità di un tempo sospeso e fragile, che richiama il nostro senza guerre eclatanti alle spalle, ma con una miriade di conflitti irrisolti che spaziano dall’umano alla sua interazione con il vivente. Il resto lo hanno fatto il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, la cui sessione finale, in un gioco di immagini immediatamente o mediatamente percepite mediante l’apparecchio fotografico, restituisce agli occhi dei visitatori la bellezza, scultorea o scomposta, dei corpi maschili e femminili, in un viaggio dentro l’erotismo che si compone di angoli e meccaniche rubate a un’intimità travolta da(l) Sé, e un passaggio al Museo Nazionale del Cinema di Torino, dove la memoria di Ork si è sbriciolata in mille frammenti di un film, il nostro, lungo almeno quanto una certa parte del cinema dentro cui l’abbiamo illusoriamente collocato perché è naturale confondere piani e volti e storie e perché, senza un buon riflettore puntato addosso, e intendo lo sguardo che taglia, amplifica, distorce, non sappiamo spesso riconoscerci la dignità che meritiamo. Tornati a Terra, allora, come riprendere il viaggio senza negare continuità a qualcosa che portiamo dentro da questi giorni? Noi abbiamo pensato che il migliore modo per non tradirci fosse ripartire da uno spazio immaginifico, dalla fiaba e dal visivo. Così “Maizo” di Elena Giorgiana Mirabelli (Zona 42) dialogherà con “Io sarò il rovo” di Francesca Matteoni (effequ) e Gianluca Didino (“Brucia, memoria”, Einaudi editore) parlerà virtualmente con Luigi Ghirri (“Niente di antico sotto il sole”, Quodlibet). Il resto è storia di là da venire che proveremo a costruire. Attimo per attimo.

Intanto, Buon Anno dal pianeta Ork!

Murales presso Museo Nazionale del Cinema di Torino.
Biglietti Mostra alla Fondazione Accorsi-Ometto di Torino.
Mart, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.

Anticipi del nuovo anno: parte prima.

«Se penso alla mia adolescenza ciò che ricordo sono lunghe giornate senza molto da fare, grandi archi di tempo che si estendevano tra un evento significativo e l’altro – l’inizio o la fine di un’amicizia o di un amore, un cambio di compagnia che rivoluzionava il look e le abitudini – e che costituivano la grana dell’esistenza: il sapore ombroso, polveroso di una noia squarciata solo a momenti da lampi di possibilità. In quel mondo ristretto, l’orizzonte della mia conoscenza arrivava a ciò che i sensi potevano percepire. Con una connessione internet troppo costosa per poter essere usata a lungo, in un’epoca precedente i social media, il mio universo si estendeva fino al punto in cui la bicicletta o il motorino potevano portarmi. La casualità, o l’apparente casualità, giocavano un ruolo importante: non potendo scegliere tra tutta la musica del mondo, ascoltavo le band che arrivavano nell’unico negozio di dischi del paese, e i miei amici erano i ragazzi e le ragazze che per un accidente del destino si trovavano a condividere la classe con me. La vita non era una scelta tra infinite possibilità: si dischiudeva imprevista, la sua bellezza aveva a che fare con la spontaneità.» (Gianluca Didino, “Brucia, memoria”, Einaudi)

Sarà tra i primi viaggi di Ork del nuovo, prossimo, anno. Non sarà solo. Avrà un compagno autorevole. E sarà un modo per Ork per visionare la complessità del reale. Indagandola alla luce di uno sguardo che, nostalgico, prova a fermare la bellezza dell’istante. E, nella coscienza dell’impossibilità, racconta una storia arrendevole e resistente, almeno quanto le forze opposte dello stare al mondo.

Carla Benedetti e Matteo Meschiari su Ork: pensare il futuro.

L’osservazione critica più evidente che si può muovere alla recentissima edizione del Salone Internazionale del libro di Torino è probabilmente quella di non avere resistito a sufficienza al bisogno di normalità manifestato dall’invasione del Lingotto da parte di un numero considerevole e inatteso di lettori. Eppure l’evidenza di un’impossibilità di ripristino della medesima e tutto quello che vi si può muovere intorno ha serpeggiato tra gli stand in alcune pubblicazioni che fortunatamente quello spirito lo hanno intercettato, in qualche, rarissimo, incontro ad hoc e in quei sottintesi o in quelle incidentali in cui il tema della fine si è insinuato prendendosi una parte di spazio inaspettata quanto intimamente desiderata da chi, come noi, non riesce più a comprendere il senso di pubblicazioni scevre dalla catastrofe collettiva nella quale siamo immersi fino al collo. In risposta a tutto ciò, il pianeta Ork riparte dall’incompiuto del Salone con due testi che ci aiutano a conferirgli un principio di forma e, dunque, forse anche di comprensione, poiché seguono la medesima direzione lungo la quale porsi il problema della fine del nostro genere facendone, prima ancora che una questione politica ed economica, qualcosa che attiene alla cultura: un orientamento che evidentemente non gira nel verso di un contenimento del tracollo, si nutre di storie che non hanno un grande respiro e nega la gravità provando ad assuefarsi a una precedente normalità che risuona vuota come una vecchia carcassa. Perché accade tutto questo? Perché, nonostante siamo le prime generazioni a fare concretamente i conti con la possibilità di un’estinzione di specie, non riusciamo a pensare a coloro che verranno dopo di noi? In sostanza, perché non siamo capaci di mettere in crisi le strutture mentali e sentimentali con cui siamo arrivati al collasso?

Si tratta del quesito da cui parte Carla Benedetti nel suo saggio edito da Einaudi, “La letteratura ci salverà dall’estinzione”. Se è chiaro che siamo in una sorta di congelamento del nostro pensiero critico e immaginativo, ciò non toglie che non si possa fare qualcosa per risvegliare “le forze dormienti”. Occorre cercare a monte. Se la cultura umanistica non è in grado di soccorrerci, non è perché essa sia incapace di farlo aprioristicamente, ma perché è attualmente attraversata da una “lacerazione profonda”: da un canto la condizione di vita del genere umano sul pianeta che ha assunto i caratteri palesi dell’estrema precarietà e dall’altro canto l’esistenza di forme culturali entro le quali la prima non riesce a collocarsi perché molti modelli di lettura del mondo non sono adeguatamente complessi e includono solo parti di realtà, generando il sopore del sentimento e l’inazione. Come uscirne? Probabilmente, suggerisce Carla Benedetti, con “una grande invenzione”, cioè “qualcosa che non riusciamo a immaginare a partire dall’esistente”. Ed è proprio immaginare il verbo chiave di questo tempo: non si tratta, infatti, di sapere. A ben guardare, sappiamo già abbastanza bene tutti in quale direzione ci stiamo muovendo e dove andremo a finire mantenendola. Non è pertanto il sapere che deve giungere in nostro soccorso, ma occorre un ripensamento del piano immaginativo: se inseriamo l’emergenza ambientale nelle storie che pubblichiamo e lasciamo inalterati gli schemi concettuali che ci hanno condotto al disastro, la modifica apportata varrà meno di zero. Cosa può fare, allora, la Letteratura ancora per noi? Intanto, necessario si profila un recupero delle “potenze dimenticate”: poemi come l’Iliade hanno il grande merito di ampliare lo sguardo includendovi l’esistente a cui si conferisce una capacità di azione. La terra, le acque, gli elementi naturali non fungono da “fondale inerte” delle azioni dell’uomo, ma interagiscono, col loro operato, con i medesimi. Se questa è la modalità operativa auspicabile del piano immaginativo, non è sufficiente, poiché manca il motore in grado di attivarlo: in sostanza, che cosa può spingermi a mettere in discussione il mio modo di pensare e lo sviluppo immaginativo conseguenziale, se neanche l’avere toccato con mano, attraverso la vicenda pandemica, la gravità dell’emergenza ambientale ha prodotto alcun mutamento (come è stato abbastanza evidente al Salone dall’osservazione della media delle pubblicazioni circolanti tra gli stand)? Serve un nuovo punto di vista temporale, anticipando la catastrofe futura come se fosse già accaduta: in particolare, non pensare all’oggi guardandolo dal domani, ma da un tempo ulteriore, da dopodomani, da dopo la fine del mondo (una sorta di paradosso, nell’ottica dell’altro saggio che tratteremo).

Possiamo rimanere indifferenti al dolore delle generazioni future, ma non possiamo esserlo di fronte alla coscienza che nessuno sarà in grado di restituirci un senso di eternità che poggia inevitabilmente su chi nasce dopo di noi (“Sapere che nessuno porterà il lutto per te, che nessuno reciterà la preghiera sulla tua tomba, che nessuno quindi si ricorderà di te perché non ci sarà più nessuno a pregare e a ricordare: questo pensiero ha la forza di terrorizzare gli ignavi, poiché non avere chi ti ricorda e chi ti piange equivale a non essere mai stato.”). Ciò produrrà l’ampliamento della scala temporale e la comprensione dell’esterno della storia della civiltà umana, includendo ciò che ha preceduto la comparsa dell’uomo sulla Terra e ciò che verrà dopo. Collocarsi e concepire la storia da un punto di vista differente non significa, però, cedere alla forma apocalittica. Se io mi pongo in quel dopodomani di cui si è detto, significa che sarò in grado di cogliere il dramma possibile in tutta la sua gravità, ma anche che posso evitarlo perché quel dramma è allo stato attuale una possibilità. Una possibilità concreta, ma non una certezza. Non serve la paralisi che l’idea apocalittica genera, ma una “disperazione agente” (“Il senso di emergenza, il sentimento di intollerabilità, l’«angoscia amante» di cui parlava Anders, sono incompatibili con il carattere di inevitabilità che gli annunciatori di apocalisse imprimono, anche senza volerlo, alla descrizione oggettiva e asettica della catastrofe in arrivo.”) che passi dalla parola che deve essere in grado non solo di aiutarci a comprendere, ad analizzare, a esercitare il nostro pensiero critico, ma anche stimolare la nostra immaginazione sostenendoci nella creazione di un nuovo mondo che ancora non c’è e potrebbe non esserci. Ora tutte le storie nelle quali questo tipo di parola confluisca, che siano epiche o meno, avranno la peculiarità di non lasciarci indifferenti, poiché racconteranno un’intollerabilità per ciò che è già accaduto da cui potremo ricavare il sostegno per il nostro movimento attuale. Destinato a infrangersi contro tutto ciò sarà il romanzo moderno realista che, abbarbicato al quotidiano, non sarà nelle condizioni di portare alla ribalta quell’inaudito, quella weirdness nella quale siamo. Molto più vicina sentiremo l’epica: e questo non perché Omero abbia il merito di ampliare lo sguardo oltre la condizione del singolo, ma perché nell’inclusione del medesimo in un orizzonte più vasto riuscirà a restituircene la precarietà, il senso del tragico, la forza della Letteratura. Se è vero che i modelli imperanti non consentono di dare ingresso alla complessità del reale, ciò non toglie che esistano nel nostro mondo attuale dei varchi, delle zone meno sorvegliate di altre da cui passa un’altra possibile storia: Carla Benedetti le individua nella fanciullezza, nelle culture che chiamiamo primitive e nell’arte, nell’immaginazione, nella parola. La zona buia scartata dal realismo moderno e dalla scienza è il nutrimento del nostro piano immaginativo e lo stimolo per andare oltre le anguste, negazioniste o apocalittiche, prospettive mediamente proposteci dal sistema.

Si muove lungo coordinate analoghe, ma non identiche, il viaggio che Matteo Meschiari compie nell’Antropocene attraverso nove parole chiave atte a generare una mappa, un itinerario possibile all’interno dell’altro saggio che ospitiamo, “Geografie del collasso”, Piano B edizioni. Riprende il tema della complessità l’ultima creatura di Meschiari, non solo nel senso di un adattamento alla realtà in un procedimento inclusivo che non ne scarti pezzi utili all’analisi e alla comprensione del presente, ma anche nel senso di un’urgenza di ricerca di alternative, percettive e cognitive, idonee a fare strada nel prosieguo tra la nebbia che si farà sempre più fitta mediante la creazione di un immaginario che suona attualmente vuoto o, meglio, saturo di quelle immagini che, prodotte dall’universo digitale, hanno spento la nostra facoltà di crearle. Complesso non è ciò che non può essere pensato o immaginato, complesso è “solo” ciò rispetto a cui sentirò la fatica di acquisizione degli strumenti idonei a comprenderlo. Non solo. Se il movimento deve partire, come sostenuto anche da Carla Benedetti, da un rinnovato spirito culturale, ciò non significa che esso non debba poi investire il piano economico generando un sistema di mutuo appoggio. Dunque, chiusura del cerchio. Procediamo, però, per gradi. Cosa occorre per sradicare quello che oggi impera dal lato culturale? Delle contro-narrazioni, sostiene Meschiari, all’interno delle quali la questione antropocenica venga metabolizzata attraverso non la forma apocalittica, che è blocco, impedimento, ma mediante la rivisitazione di concetti diffusi come ambiente, natura, wilderness, alla luce del collasso imminente in una traduzione di essi su di un piano concreto dentro cui si collocano le nostre vite e il rischio dell’oblio. Dunque, necessità di portare in quello che verrà ciò che ci tornerà utile, salvare quello di cui potremo avere bisogno, eternare per quanto possibile la nostra memoria (“In questo scenario di crollo inevitabile e di cambiamento necessario il passato non è più un’opzione, e allora abbiamo un lungo futuro alle spalle, fatto di gesti da reinventare, di libri non più letti da rileggere, fatto di rilegature spezzate da restaurare e di tracce da esumare nel presente.”), perché la catastrofe non è necessariamente la fine di tutto, ma è certamente la fine del mondo che conoscevamo e il principio di un altro ancora immaginabile, diverso dalle prospettive apocalittiche e dove la conoscenza potrà sostenere l’impensabile. Ed è proprio quest’ultima, unitamente al nutrimento immaginativo, il punto o uno dei punti da cui partire: se tutto passa dalla rete, nell’impossibilità di accertare l’attendibilità delle fonti e nella fatica dell’organizzazione del sapere che non ha appigli saldi e si muove nell’assenza di un rapporto spazio-temporale col testo, in una sorta di immaterialità del discorso, ogni cosa si fa estremamente aleatoria e solo pochi, quelli che ne hanno le competenze, di questo sistema complesso, potranno navigare senza intoppi, la restante parte non avrà tra le mani alcuno strumento utile. Fluttuerà nell’ignoranza e sarà facilmente manipolabile dagli oligarchi che continueranno a detenere il potere e a decidere per noi, anche delle sorti del pianeta.

Qui, è il ruolo della Cultura, nel punto in cui non induce a desistere dalla ricerca delegando alla rete il compito di colmare le lacune, ma responsabilizza, non solo rispetto alla propria vita, ma anche rispetto a quella altrui. Un’editoria che non si pone domande in merito ha tradito sé stessa. Se l’Antropocene è “un fatto sociale globale”, non ci si può sottrarre alla complessità della visione che comporta, laddove essa va a frantumare l’esistente e a indurre la creazione di un’alternativa che passi dall’immaginario. Eppure accade, accade che ci si ostini a non vedere la gravità dell’emergenza ambientale, che si ceda alla tesi complottista in una sorta di de-evoluzione che Meschiari non tarda a definire istupidimento collettivo con cui ci si adatta al collasso e ci si protegge dal terrore. Qualcosa di simile a quel mutamento irrazionale, compiutosi tra i cinque e i diecimila anni fa, quando si generò una crepa nella stabile armonia consolidatasi fino a quel momento tra uomo e ambiente naturale. Dunque, discorso qui articolato diversamente rispetto al primo saggio: lì certezza del sapere e inazione da erroneo punto di vista temporale, qui sapere incerto e istupidimento collettivo. Soluzioni analoghe, però, che investono il pensiero, la cultura e l’immaginazione. Come si deve porre, in particolare, l’editoria in tutto ciò? Quali libri possono avere un senso in quest’ottica? Non è la distopia la risposta, se essa non reca con sé lo stimolo alla generazione di un pensiero diverso, di un piano immaginativo alternativo al sistema. Ma non lo è neanche l’utopia, se essa non si traduce in pratica quotidiana alternativa all’oggetto della contestazione. Dunque, bando agli incasellamenti che inducono all’errore. Occorre, lo dice chiaramente Meschiari, “sabotare il racconto univoco con paradigmi follemente intelligenti”.

Proprio nella follia dell’intelligenza risiede il nucleo della zona buia alla quale accenna Carla Benedetti: una discesa sotterranea, uno scavo intellettuale, che metta in comunicazione luoghi e tempi diversi, che rifiuti la linearità del tempo a tutti i costi, che recuperi la fallacità umana non quale esito di un giudizio di fallimento attraverso cui gli oligarchi al potere ci manipolano inducendoci a colmare la mancanza, il vuoto con l’ultimo cellulare o altro prodotto lanciato sul mercato, ma quale espressione di una singolarità la cui disfunzione implica una possibilità di recupero. Se, come diceva Pavese, “raccontare è sentire nella diversità del reale una cadenza significativa, una cifra irrisolta del mistero, la seduzione di una verità sempre sul punto di rivelarsi e sempre sfuggente”, questo, qui, equivale a dire che la narrazione non deve eludere ciò che sfugge alla comprensione, ma sul terreno del sapere dare vita all’idea di futuro dove fare i conti con l’imprevisto attraverso ciò che saremo stati in grado di portare dal passato e l’attivazione del potere immaginifico che avremo saputo preservare e potenziare, superando gli steccati rappresentati dalle classificazioni. Schemi dentro i quali ci rintaniamo eludendo ogni forma di responsabilità e conseguente possibile azione nel reale. Fuga, insomma, esattamente come l’utopia. Testi, dunque, entrambi fondamentali, quello di Carla Benedetti e di Matteo Meschiari, perché, se l’una introduce chiaramente nella materia, l’altro la sviluppa su più lati, pur facendo della questione culturale uno dei punti sostanziale da cui ripartire, inserendo in ciascuna voce in cui il saggio si suddivide una molteplicità di concetti a cui, probabilmente, il primo in parte prepara.

Mindy

Viaggio di Ork intorno al Salone Internazionale del Libro di Torino.

Il pianeta Ork, con tutta la fatica di un tempo che non assicura alcuna certezza, ha scelto di scendere sulla Terra in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino svoltosi al Lingotto dal 14 al 18 ottobre 2021, lo ha fatto con la curiosità di comprendere quanto la vicenda pandemica avesse stravolto le abitudini dei lettori italiani e quanto fosse stata capace di fare vacillare le verità intorno a cui ruota una buona fetta dell’editoria. Dai numeri recentemente pubblicati, a chiusura del Salone, pare ci sia stata una sorprendente risposta di pubblico. E, in fondo, anche parlando con gli operatori del settore, uffici stampa ed editori, ne abbiamo avuto conferma. Bastava d’altronde guardarsi intorno per avere un’idea sufficientemente precisa dell’andamento di quei giorni, sebbene una corretta valutazione non possa prescindere dalla considerazione della scelta organizzativa di tirare dentro nomi poco affini al piano letterario più ortodosso e piuttosto dentro quel mondo dell’immagine e dello spettacolo a cui una parte consistente dell’editoria ha ceduto volentieri in nome di un incremento delle vendite e di un profitto che spesso riduce le opportunità di fare circolare qualcosa che dia da pensare. E, se una parte degli incontri verteva su un’estetica e un’istanza celebrativa di miti ancora possibili, nonostante lo sradicamento di senso che il covid ha generato nelle nostre vite rispetto all’altro e al mondo fuori, qualcosa si è salvato, ha girato nel modo giusto e ha portato dentro le vetrine della cultura del nostro Paese un’altra e più profonda e irrequieta storia all’interno della quale noi orkers sappiamo di essere.

Da Gustavo Zagrebelsky che, nella sala predisposta ad accogliere il suo “Qohelet” (Il Mulino), non ha esitato a porci di fronte alla nostra vanità, al ricordo di Daniele Del Giudice nella sincerità quasi commossa delle parole di Massimo Cacciari ed Ernesto Franco, dall’infinitamente piccolo sapientemente coinvolto nel sottobosco di Tommaso Lisa, messo di fronte all’urgenza chiarificatrice dei suoi stimoli verso ciò che lo sguardo umano tende ad accantonare da Laura Pugno, fino al non riuscito “Viaggio al termine della notte” compiuto da Walter Siti, passando per le rivelazioni psichedeliche: molto di ciò che è circolato aveva con sé non solo la gioia fisiologica di un’emersione, ma anche la più celata coscienza di una fragilità con cui fare necessariamente i conti. Nulla da cui siamo passati era “solo” ciò di cui si stava parlando, era ben oltre, in una prospettiva più ampia indotta dalla coscienza più o meno sopita che, per quanto ci stessimo illudendo che tutto fosse come prima, niente e nessuno lo era e lo è davvero. Abbiamo faticato a riconoscere qualcuno che già conoscevamo e non perché avessimo il viso parzialmente coperto dalle mascherine, ma perché il covid si è portato via le vite di qualcuno a noi caro o pezzi della nostra identità rendendoci talvolta più fragili, talaltra più bui e incattiviti. Così dagli incontri e dagli sguardi si sarebbe potuta ricostruire l’altra faccia di questo Salone e della nostra umanità post-covid, quella che a noi oggi qui interessa. Tra Leopardi e Primo Levi, Zagrebelsky ci ha raccontato il suo “Qohelet”, testo biblico, libro della disperazione e del ritorno, che dice cose vane e confessa la vanità di ciò che dice, in un sotteso invito alla riflessione matura, classico tra gli adolescenti della generazione di Chiara Valerio, che lo ha introdotto, ma non nostro, testo eretico rispetto alla tradizione cristiana e cattolica che pone all’attenzione del lettore l’incombenza della morte e l’evidenza di quelle vite che passano senza lasciare alcuna traccia. Allora, che fare? Cedere all’inganno dell’esistere o provare a farne qualcosa? Fare leva su di noi, sullo studio, sul sistema logico che abbiamo generato, riprendere in mano il senso della responsabilità dei gesti e delle relazioni: questa la strada.

Non distante la complessità anche etica del mondo di Daniele Del Giudice (Einaudi editore), dove l’osservazione entra a fare parte di ciò che si osserva: se vedo una cosa, è chiaro che essa passa dalla mia visione. Come rendere, allora, questa forma rappresentativa precisa, esatta? Se è la situazione a dovere prevalere in questa logica, come non fare emergere smisuratamente l’Io, senza rinunciare al sentimento? Daniele Del Giudice, lo ha detto bene Ernesto Franco, è stato un grande raccontatore di storie attraversate da tutti i materiali della letteratura, ossessionato dall’esigenza di trovare un nuovo modo di nominare il mondo, alla ricerca di una coerenza estrema che rendeva la sua lingua l’esito di una ricerca dove la “giusta grammatica” fosse l’ingresso alla propria casa, quella dimensione narrativa dove lo scrittore possa stare bene. Scrivere eticamente, dunque, in una via quasi salvifica dove fare i conti con la rinuncia di fronte all’impossibilità di portare simultaneamente nella pagina scritta la luce e il suo cono d’ombra, la precisione di ciò che è visto e la cura dell’ombra. Daniele Del Giudice sa che la luce si perde, che degrada, perché tutto ciò che appartiene a questa Terra fa i conti con i limiti. Anche la luce. Da cui il conflitto che occorre sapere rappresentare, sostenere, tollerare, non eliminare: il conflitto tra il volo quale spinta folle senza cui non ci muoveremmo dal nostro comodo immobilismo e il dono divino che, nell’accezione di cura e attenzione, offre la garanzia di non cadere, contiene gli effetti delle passioni che superano la forma del desiderio e sconfinano nell’ossessione.

Dalla visione dall’alto da cui cogliere le peculiarità del territorio, anche nei suoi aspetti più terribili, ai Tenebrionidi di Tommaso Lisa, insetti oscuri che abitano le rovine dell’uomo, il passo è più breve di quanto non sembri: cura per il dettaglio ed etica nello scrivere sono temi noti anche a queste profondità, nonostante la rinuncia alle altezze, perché in qualche modo l’autore di “Memorie dal sottobosco” (Exòrma edizioni), che si dichiara anti-narrativo, cerca la conciliazione tra gli opposti, una soluzione armonica dove la scienza che esclude un fine aprioristicamente e la narrazione, dentro cui un fine o una fine fisiologicamente si collocano, sappiano generare insieme qualcosa di nuovo. Fare reagire lo stile scientifico con quello filosofico e quello lirico: questo è il suo interesse, oltre ogni tentazione di classificazione enciclopedica a portata di ossessione. In quest’ottica ogni diaperis è come un individuo, una monade che ha in sé il patrimonio genetico di un’intera specie, ma porta sé stesso dentro la medesima: a ben guardare, infatti, non solo ciascuno è esteticamente diverso dagli altri, ma il suo comportamento non sarà quello di un altro.

“Pensavo che inavvertita sarei potuta morire”: quasi un coleottero, Emily Dickinson risuona potente come poco altro nei versi che Marco Baliani recita in un centro congressi invaso dallo sciame in coda per ascoltare Cesare Cremonini. Benedetta Centovalli (“Nella stanza di Emily”, Mattioli 1885), con grazia inaudita e passione incontenibile, racconta le contraddizioni della poetessa di Amherst, si rifiuta di chiuderla nel concetto di autoreclusione e ci offre tutto quello che il viaggio dentro sé stessa le ha consentito di compiere: il cambiamento, la quiete e la tempesta, un procedere metamorfico che oltrepassa la stanza ed esprime uno spirito che, con dignità e lirismo non moderni, ma della poesia di sempre, in una verticalità assoluta, si posa sui nostri sguardi commossi e sul nostro desiderio di conoscerne le lettere.

Demetrio Paolin e Omar Di Monopoli.

Dal Massachussetts ai Sud del mondo, incluso quello degli Stati Uniti, il passo non è lunghissimo se le donne sono la coscienza che manca. Omar Di Monopoli presente la sua ultima creatura, “Brucia l’aria” (Feltrinelli), introdotto da Demetrio Paolin. Tra Verga e Faulkner, nella sua Puglia, lo scrittore esprime il desiderio di fare ordine proprio in quel Sud, dove la maggior parte dei personaggi tenta di opporsi a una catastrofe e, nel farlo, si fa latrice di un senso di fine che è una tragedia dentro cui, però, la disperazione diventa quasi cantabile. Allora, il senso del dramma non cede inesorabilmente all’idea tragica della vita, perché scivola su questa e conduce un passo oltre, verso una sorta di speranza, un contenimento che rende la sublime poesia: ciò che resta nonostante tutto. Poi la commistione linguistica, del dialetto di chi parla con il linguaggio colto nelle parti descrittive, il conflitto tra fuoco e acqua, una mappatura dei luoghi dei suoi libri che generano una regione dell’anima dentro quella geografica, le donne che impongono un salto, un cambiamento, la contaminazione e il vivente che entra nella narrazione dell’umano: una fragilità e una scomposizione, ma anche l’opportunità del passo dopo.

Quello che talvolta non riusciamo a compiere e rispetto a cui riti e sostanze racchiudono la sintesi di un discorso ampio sulla possibilità di farlo, di arrivarci, lì dove tutto si ferma, e non per la garanzia della performance, con altri mezzi che celebrano il corpo in forme e modalità che abbiamo smesso di coltivare. Racconta il misticismo del corpo Paolo Pecere, autore de “Il dio che danza” (Nottetempo), saggio con una componente autobiografica e narrativa, dove il tema dello smarrimento della propria identità incontra la duplice declinazione dell’abilità di perdersi e del rischio della follia e la possibilità, in un equilibrio complesso, fuori dai rigorismi mentali, di sviluppare potenzialità inespresse, di compiere quel passo di cui prima, in un’estensione interpretativa che qui involge il piano esistenziale, prima che narrativo. Dunque, potenziamento, creatività, smarrimento dell’Io, eco individuale del ruolo del narratore, ma anche maschera d’uso nei riti che introduce al travestitismo o travestimento e all’ingannevolezza, alla manipolazione agevolata dal basso raziocinio. Pertanto, conoscenza delle altre culture, in una sorta di etica che rimanda al punto di partenza, senza volere essere esaustiva.

Edorado Camurri, Vanni Santoni, Gianluigi Ricuperati e Federico Di Vita.

Perché laddove essa si ferma entra in gioco la psichedelia con i suoi risvolti, oltre gli impieghi comunemente diffusi nella nostra società. Incontro tra mente e cervello, superamento di confini dentro “La scommessa psichedelica” (a cura di Federico Di Vita, Quodlibet), che in un fine giornata al Salone, è stata una benedizione inaspettata. Non solo per l’interesse suscitato intorno all’argomento da Vanni Santoni, Federico Di Vita ed Edoardo Camurri, ma perché in quell’ora il Lingotto è diventato un insospettabile amplificatore di una delicata questione politica dietro cui individuare le istanze di un mondo che sta facendo esperienza della fine e che cerca disperatamente di varcare certi confini verso un futuro che necessita di un immaginario che ancora non c’è. E che neanche Walter Siti è riuscito a risvegliare riprendendo tra le mani il capolavoro di Celine. Preso dall’urgenza di dire, senza cura, ha riversato sull’uditorio una dissertazione arida e senza anima di “Viaggio al termine della notte”, illudendo finemente il pubblico di una sua posizione polemica rispetto al pensiero dell’autore e costellando la sinossi appiattita dal caterpillar della sua imponenza di concetti complessi che, introdotti qua e là, senza alcuna adeguata introduzione, sapevano di colto procedere senza accompagnamento. Così Celine è rimasto lontano. Come gran parte del pubblico. Lui lì in alto. Esattamente ciò che la letteratura non deve fare.

Mindy