Reimparare a guardare il mondo. Tra Luigi Ghirri e Gianluca Didino.

È di ieri la notizia della scomparsa di Tito Stagno, storico giornalista Rai, il cui racconto dell’allunaggio, nella notte tra il 20 e il 21 luglio del 1969, entrò nelle case degli italiani ad annunciare una rivoluzione, a dichiarare l’ingresso ufficiale in quella che lui stesso ebbe modo di definire “una stagione di entusiasmi, di coraggio, di desiderio di conoscenza che si rivelò poi troppo breve”. Per alcuni quell’evento segnò l’ineluttabilità di un destino. Fu così per Luigi Ghirri che, in molti dei passaggi e in alcune interviste raccolti all’interno del volume “Niente di antico sotto il sole” (Quodlibet), lo riporta quale insostituibile concausa della sua scelta di abbandonare la vita da geometra per intraprendere quella più rischiosa della fotografia all’interno della quale portare, però, l’aspetto della progettualità dove inserire le forme sfuggenti della passione. Così disse a Sergio Alebardi che gli chiedeva quale fosse il nesso tra lo sbarco sulla luna e la fotografia: “L’immagine della Terra vista da lassù mi fece un grande effetto: per la prima volta vedevamo il nostro pianeta dal di fuori, il duplicato della Terra, la rappresentazione della nostra storia. Tutti i film prodotti, le chiese costruite, tutti i libri scritti, i quadri, le foto, le persone: tutto era sintetizzato in quella foto, senza nulla di realmente intellegibile. Fu per me una spinta a percorrere i primi passi nel campo della fotografia”.

Dunque, da un canto “l’accumulazione istantanea sul significare del cambiamento di senso” che opera per merito della sovrapposizione di piani, quello del mondo fisico ritratto, quello dei simboli con cui accediamo al primo e, infine, quello percettivo dell’osservatore. Dall’altro, l’evidenza caotica di una realtà, lo specchio visibile di un momento che ne racchiude un’infinità di altri che lo hanno preceduto e che, pertanto, suggella non solo l’esistente presente, ma anche il passato, qualcosa che ne ha posto le basi, inducendo nell’osservatore l’attivazione di un processo di memoria (per ora chiamiamola impropriamente così) e, parallelamente, il desiderio di comprendere, quasi di portare ordine in un sistema disarticolato di elementi potenzialmente raggruppabili in categorie. Lo dice a suo modo anche Gianluca Didino, nel recente e-book dal titolo “Brucia, memoria”, edito da Einaudi, nella collana dei “Quanti”: “Nel tentativo di colmare la voragine lasciata aperta da quella fotografia non scattata cominciai a cercare di ricostruire le tappe del viaggio di ritorno da Barcellona. Pensavo che se l’avessi fatto, se fossi riuscito a metter insieme un percorso coerente, anche i ricordi sarebbero tornati al loro posto, producendo un racconto dotato di senso”.

“Memorie di infinito”, matita e carboncino su carta, Mork.

Qui un vuoto, l’assenza di un’immagine in grado di offrire un supporto alla memoria e, dunque, l’opportunità mancata di narrare la zona limbica di una vacanza che segnerà la fine di un tempo che racchiude le infinite possibilità dell’esistenza e il principio di qualcosa che ha il retrogusto amaro della vita adulta. L’indiretta constatazione, in entrambi, che lo sguardo intimo, ma rivolto all’esterno nella forma dell’immagine che ci viene restituita sia l’indispensabile presupposto di ogni processo di storicizzazione e di identificazione dell’individuo. È certamente una storia di perdita quella che Didino traccia nel suo testo, la storia di un passato doppiamente perduto nell’irrecuperabilità di quella restituzione visiva che offre lo spunto per il salto nel ricordo, ma è oltre, in un tentativo di oltrepassare la dimensione individuale e privata per consegnare ai lettori una riflessione più ampia che investe tutti e dalla singolarità del ricordo accede allo spazio collettivo della memoria. Ed è esattamente in questo punto che Didino e Ghirri, in qualche modo, incominciano a dialogare, laddove entrambi colgono gli effetti paradossali di un’epoca satura di immagini e quasi priva di memoria come la nostra, seppure nel riconoscimento del carattere profetico delle parole di Ghirri impiegate in un tempo di scarsa consapevolezza collettiva.

Non che oggi sia chiara a tutti quella che Didino chiama la “pervasività dei media digitali”, ma è di certo più facile accedere, con adeguata selezione, a contenuti che pongono l’attenzione del lettore sull’urgenza creativa di un immaginario, umano e narrativo, attualmente inesistente e premessa congeniale alla probabile verificazione di una risolutoria fine del mondo. Più facile precipitare nell’abisso, piuttosto che responsabilizzarsi sulla scia di un desiderio sostenuto dall’immagine di quello che ancora non c’è. Siamo, però, troppo sollecitati visivamente per riuscire a scorgere la meraviglia che il mondo è ancora in grado di regalarci. Scientificamente, dice Ghirri, il grado di visibilità del pianeta è diminuito: non solo non vediamo molto più in là di noi, perché eccessivamente presi dal nostro reticolato di problemi e interessi, dentro cui l’altro ha accesso solo in forma virtuale, ma anche conseguentemente l’orizzonte si è avvicinato a noi, cioè quello che non riusciamo a scorgere non esiste perché non siamo più capaci di vederlo né di immaginarlo. Recita un passaggio: “Le categorie dello stupore e dell’incanto sono ben lontane da noi, che non siamo bambini in un mondo che si definisce vecchio, ma non sono totalmente sopite e disperse. Forse è sufficiente riprendere a praticare strade meno consumate e tracciarne di nuove”. Come in concreto ciò debba svilupparsi, cioè cosa debba guidare in questa ricerca è quesito di estrema importanza per il procedere della nostra riflessione e Ghirri, più che Didino che si ferma a un’attenta osservazione dello stato delle cose e al tentativo di individuare un momento storico in cui la pervasività di cui sopra è diventata lo standard (“Non lo so, ma deve essere capitato da qualche parte durante il passaggio che ha portato la mia generazione dall’adolescenza alla vita adulta”), più volte si appella a uno stato di necessità, intendendo con ciò la novità del rapporto dialettico che l’autore è in grado di porre con l’esterno e a cui seguono nuove strade, concetti, idee (fotografia come “grande avventura del pensiero e dello sguardo”), ma anche alla fuga da una sorta di “colonizzazione del nostro vivere, che vuole confinare tutto quello che «non è di moda» in una provincia che non è quella dell’uomo e dello spazio, ma che è quella del tempo”.

“Colonizzare il tempo”, conformarlo a un sistema di apprezzamento generalizzato per cui non conta o non vale ciò che “non è metropolitano, spettacolare, levigato, tecnologico, economico”, è la base della negazione della dimensione dialettica del confronto attraverso cui può sorgere il nuovo o, quantomeno, la capacità di scorgerlo. Ora se Ghirri declina il processo in termini qualitativi, cioè in una forma inerente a un sistema di valori che si impone come preminente, Didino ce ne suggerisce una chiave quantitativa, laddove il nostro tempo è assorbito, “impegnato”, “saturato” dalla pervasività dei media che hanno annullato “le zone grigie di assopimento e torpore”, cancellando il valore creativo della noia, la percezione della mancanza e lo slancio del desiderio. Seguire la via proposta da Luigi Ghirri comporta il recupero del rapporto con l’altro che il sistema ha oramai escluso se non nella forma virtuale della condivisione e dell’apposizione di una reazione simbolica, poiché, laddove la fotografia restituisce un’immagine dialettica, essa sarà in grado di comunicare all’altro il nostro stupore con conseguente effetto domino su chi la osserverà con una diversificazione delle percezioni soggettive, senza affannose ricerche di oggetti posti sotto gli occhi di tutti e il cui moltiplicarsi è logica consumistica applicata anche all’arte. Ed è l’altro che torna anche nel testo di Didino perché il percorso che compie attraverso il testo vuole essere, così parrebbe, prima ancora che una riflessione, intima e generale, sull’assenza di una memoria in grado di collocare il ricordo dentro i parametri di una logica precisa (direbbe Ghirri, “non l’immagine-ricordo, ma il ricordo di una immagine, di una percezione”), un inevitabile tentativo di fare della narrazione un sostituto di quella fotografia che, forse, se ci fosse stata, avrebbe cambiato le sorti sue e dell’amico, l’opportunità, vanificata dal riscontro di pezzi mancanti, di colmare le lacune di una storia, ma anche l’affaccio timido e nostalgico, malinconico e inevitabilmente impreciso alla dimensione narratologica nei vuoti della memoria. Dice della malinconia Ghirri: “La malinconia è il cartello indicatore di una geografia cancellata, ed è probabilmente il sentimento della distanza che ci separa da un possibile mondo semplice”. Non è, forse, l’umore prevalente che Didino ci trasmette nella restituzione di un mondo sepolto, unitamente a tutto quello che è mancato nell’esperienza personale di un viaggio? Non è, il suo, un modo di riprodurre verbalmente e dialetticamente, nel confronto con quello che non c’è più, emblema di semplice linearità di vite e logiche che si incrociano prima del risucchio globale nella vita adulta e in un sistema asfittico di civiltà, la complessità di un mondo dove più informazioni si producono e più esso risulta incomprensibile? Lo aveva detto Ghirri in uno scritto nel 1987, che tutta la fantascienza si è avverata senza che nessuno se ne sia accorto e potendo in questa categoria introdurre tutta quella strana e non facilmente comprensibile verificazione di eventi in cui si è tradotta la nostra quotidianità storicizzata.

Ora, se la fotografia è un tentativo di comprendere il mondo, nascendo da una domanda, è nel margine ambiguo, in quello che insoluto lascia alla percezione dell’osservatore, che risiede l’origine dello stupore, la bellezza di un disvelamento mancato, il margine di una prossima avventura, il piano spostato dell’orizzonte imposto dai social. Come può, allora, il mondo esterno diventare da complesso a inesauribile, cioè come lasciare che la volontà di comprensione si traduca in riconoscimento di un limite a dispetto di qualcosa che ci sovrasta nell’ottica del recupero del senso della meraviglia in una ignoranza non colpevole, ma connaturata? Sembrerebbe questo il punto del nostro viaggio. Non solo. Se fotografare è, come sostiene Ghirri, la “coscienza del trovarsi sulla linea di confine tra conosciuto e ignoto”, essa appare il luogo di elezione in cui sviluppare i corollari della questione posta, anche nella forma di un viaggio senza immagini al seguito, dove al senso della perdita e alla malinconia si accompagna l’esperienza di curiosità verso un altrove, il nostro futuro desiderabile e immaginabile. Leggere poi nelle pagine di Didino un movimento in disarmonico equilibrio, quello di un’intera generazione o, forse, due, tra quello che è stato, carico della potenza e delle potenzialità dei sogni giovanili, il bisogno di fermarlo, rischiando di eternarlo epicamente, e ciò che sarà, in una visione che striscia, inciampa, zoppica, ma che non rinuncia a volgere in alto lo sguardo, e in quelle di Ghirri un flusso costantemente mosso dalla solida confluenza dei piani nella irriducibile forza del presente è probabilmente un’altra, ancora più enigmatica storia visionaria.

Mindy