Di padri e balene. Al confine con Ork.

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Nella convinzione ferma che il caso non esista, è giunto su Ork qualche settimana fa un libro, edito da Tunué, dal titolo enigmatico, “Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena” (trad. Hilary Basso), quasi una strofa rivelatrice di una vecchia filastrocca di bimbi dimenticati in uno spazio conosciuto in cui l’infanzia sapeva ancora di immaginifica assenza di tempo, salvo poi accorgersi, entrandovi dentro, che il tempo esiste, quantomeno nella percezione che abbiamo, che esso, contenendo un anarchico srotolamento di anomali eventi e di magrittiani personaggi che puntellano la presunta atemporalità, debba esserci, seppure in una scansione difficile da connotare su un piano prettamente terreno, volgendo il ritmo della narrazione verso un asincronismo onirico e necessario alla vicenda.

Michelle Steinbeck, giovane autrice svizzera, giunge sul nostro pianeta per vie insolite rispetto all’ordinario, quasi ci avesse scelto lei, ben sapendo che di vincoli e ambigue posizioni di comodo, di padri che ci lasciano e di madri dichiarate responsabili in un processo senza appello, di ruoli cercati e desiderati e di ruoli assegnati e indossati fuori taglia, Ork è pieno fino all’esplosione, quell’apice supremo che si preannuncia catartico nell’atto della crescita prossima ventura, che imporrà uno scatto analogo al viaggio di Loribeth, la protagonista del libro che oggi “casualmente” ospitiamo.

Dicevamo di un tempo che potrebbe essere assente e, invece, non lo è. Dicevamo del tempo perché esso è probabilmente più di un contenitore di vite che si fa più o meno prepotentemente strada nel corso della narrazione, fagocitando o respingendo e, pertanto, comprimendo o dilatando non solo il ritmo narrativo, ma anche il senso di un passaggio. E questo accade sia nella trasformazione dell’evento in una coscienza che impone lo scatto, che nel fermo immagine in cui ci si arresta, non si cerca e non si trasforma e i rintocchi che risuonano, nel silenzio che si dilata, si fanno lenti come quelli della campana di Buñuel nel buio di un inconscio che diviene collettivo, laddove ci siamo noi e le nostre mancanze in un’ora, in un istante, un minuto, in un tempo che si è fatto maturo e adulto.

Quella della Steinbeck è, dunque, una navigazione dai tempi perfetti, rapida e veloce laddove il tumulto lo richiede e lo srotolamento delle rocambolesche avventure avviene su un piano di azione o rinnovata coscienza, più lenta in quei margini in cui si fa spazio il passato, il ricordo, la fatica di separarci da ciò che siamo stati, quando ciò che vorremmo essere non sappiamo ancora che faccia abbia e i nostri desideri evaporano e si perdono in una valigia in cui è racchiuso il padre amato, la sua storia, ciò da cui veniamo, quello che è stato e che ci ha radicato a tal punto da farci credere che non sia possibile altra forma di vita.

In sintesi, una musica per “giovani” animali, citando a modo nostro un film del 1989, co-diretto da Stefano Benni, con Fo e Paolo Rossi, dove gli animali erano vecchi e si raccontava di un viaggio surreale e di una decadenza, tradita dalla lentezza della narrazione, nell’impatto anomalo con un mondo in cui il vecchio e l’ideale non erano più, non venivano riconosciuti, pur nella luce degli sprazzi di una bambina ribelle e in un dono consegnato che voleva coraggiosamente essere un preludio a un finale fuori, almeno in parte, dall’apocalisse.

Qui, alla velocità della trasformazione si oppone la lentezza dell’incoscienza con cui mascheriamo di impossibilità la svolta verso di noi: noi abbandonate dai padri amati, noi che abbiamo creduto che le madri avessero tutte le colpe del mondo, noi che i fratelli ce li siamo dovuti conquistare in quel viaggio in cui li abbiamo conosciuti e riscattati dall’ostacolo, che abbiamo creduto che fossero, all’amore di un padre e di una madre di cui siamo andati ansiosamente in cerca fino a sbattere contro ciò che è mancato e non sarà più.

Abbandoni e colpe sono, insieme al tempo e, forse, coerentemente alla rilevanza del tempo, in questo apocalittico gioco in cui non c’è nulla da perdere a parte se stessi, la chiave con cui Loribeth accede alla rapidità della comprensione e della crescita, quasi chiavi perfette della valigia che contiene un pezzo di storia della vita del padre fuori dalla propria centralità di novella Elettra, con cui fare i conti attraverso la conoscenza dell’Amore che qui è ancora acerbo per garantire un salto e che, però, attraverso la sofferenza e la paura del viaggio, incomincia a palesarsi in una più naturale compassione: amore come compenetrazione nel caos adulto in cui il giudizio senza appello dell’assolutismo di chi non ha avuto amore si ammorbidisce, si fa fragilità e ammette un piccolo ingresso alla felicità laddove la crepa è nel riconoscere la mancanza come disuguaglianza di forme, quasi a volere inserire un cubo in un parallelepipedo, contravvenendo a ogni regola, in un gioco che non abbiamo saputo giocare.

Se solo ci fossimo intesi su ciò che potevi darmi e su ciò che avrei potuto chiederti, nulla sarebbe accaduto, salvo poi arrivare al passaggio ulteriore: se tutto fosse stato così come doveva, il viaggio non sarebbe mai iniziato e noi e Loribeth, dal nostro, dal suo pantano, quello di un desiderio ristagnante e sepolto dall’altro, dietro cui andare per rinviare nevroticamente l’ingresso ufficiale in vita, non saremmo mai partiti e il libro della Steinbeck non lo avremmo attraversato con il carico di empatia che la stimolante e concitata narrazione suscita, in un tripudio di simboli che vanifica ogni junghiano sforzo di analisi, alleggerito dall’ironia che accompagna questo burtoniano excursus di mostri, crolli, incendi, scomparse e mirabolanti costruzioni di nonsense.

Nessuna indicazione in merito a dove siamo. Come in un quadro di Botero, dove le forme abbondanti non sono rotondità di massa, anche qui il sogno è contraddetto o, meglio, esasperato dalla fisicità di immagini cariche di sangue e corporeità e, pertanto, di vita e della sua fine, quasi a rammentarci che è tutto un labile confine e che, prima di essere riassorbiti nel nulla, è il caso di ascoltare la materia dei nostri corpi con cui plasmare un desiderio finalmente nostro.

La balena è un punto sul finire del romanzo, la conclusione di una traversata in un sistema ludico in cui la realtà è capovolta, nulla ha senso secondo le coordinate comuni e non resta che trovarselo da sé un modo per sopravvivere, portandolo poi nella vita fuori, quando decideremo di entrarci, scaduto il tempo dell’attesa. Pinocchio ne viene fagocitato, dal cetaceo dalle materne fattezze, per poi, con l’aiuto del padre, uscirne verso una vita sua. Qui si passa da lì, un religioso raccoglimento nel rapido tempo di una sistemazione di un ordine delle cose: il viaggio di transizione è finito, si raccolgono le idee, ci si riprende la vita e la macchina da scrivere che è stata dei nostri padri ora può raccontare la nostra storia.

Mindy

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“Alice, smettila di giocare coi gatti!”, china e penna su carta, Mork.

 

 

 

 

 

 

 

Del viaggio, di una valigia e di una storia vicina a Ork.

Arrivano inattesi certi doni su Ork e il caso vuole che narrino di noi. Un viaggio e una valigia e, dentro, l’infanzia, il padre, i fratelli che ci toccano e la conquista della fratellanza, la madre che ci ha partorito e la paura della nostra maternità, isole che compaiono all’orizzonte e un’Itaca possibile, certezze che si sbriciolano, mostri e cani che si cibano di orecchie, l’ascolto e la crescita, il tempo di un’aggregazione finita e quello, solitario e ironicamente apocalittico, del desiderio, un attimo prima che generi un’altra vita. Un ponte verso la maturità di un’autrice che porta con sé l’acerbo dell’insoluto e la vita ufficialmente adulta dietro l’angolo delle parole vorticose di questo canto al contrario di una lontana “felicità familiare”. D’obbligo parlarne.

«[…] Di cosa dovrei scrivere? Non sono più saggia di prima, se possibile capisco ancora meno. I grandi misteri sono diventati piatti come un foglio di carta, irrisolti, è vero, ma non più così urgenti. Quando Mabel legge, io dormo oppure osservo le figure zoomorfe che la muffa disegna sul soffitto. Ci si può perdere davvero in ogni cosa: passo giorni a imprimermi disegni sulla pelle con le unghie, serpenti, mostri, tartarughe, non faccio altro che starmene seduta ad ascoltare i rumori della casa: il rubinetto che perde in bagno, Mabel che sfoglia le pagine del libro, il clic che fa Seifert quando si taglia le unghie dei piedi. Spesso tutto diventa troppo. Mi gira sempre la testa e quando mi stendo, mi addormento subito. È un buco nero di incoscienza quello in cui cado e dal quale mi risveglio di soprassalto in iperventilazione, e sentendomi soffocare mi precipito alla finestra e inspiro l’aria salmastra del mare […]». (Michelle Steinbeck, “Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena”, trad. Hilary Basso, Tunuè)

Stato di ipnosi causato da un farmaco errato (40x50, acrilico e tempera su tela, 1994)
“Stato di ipnosi causato da un farmaco errato”, acrilico su tela, Mork.

Bensimon e Durastanti: storia di una mancanza.

Biliardo sott'acqua

E anche Ork torna alle sue abitudini salvifiche, quelle che, passando dalla forma della parola scritta o da un disegno, hanno il potere di raccontarci, di anticiparci in ciò che non sappiamo ancora dire, in quelle avventure, anche di viaggio, che svelano un senso, di un momento, di un istante, di un’età, e senza cui anche la linea, scritta o tracciata, cadrebbe nel vuoto perché di vita vissuta si nutre, perché dalla vita nasce per regalare l’illusione che saperne coglierne la forma sia una qualche garanzia di salvezza, salvo poi chiedersi da cosa esattamente.

Questa estate ci ha condotti lontano, lontano da noi, fuori dagli abiti con cui indossiamo le nostre esistenze, ci ha scartavetrati, privati di appigli facili dietro cui celiamo le nostre paure, ci ha scoperti, rivelato promiscuità, confusione di piani, assenza di certezze e una verità in fondo che racchiude il fluido confluire degli opposti che la natura ci pone costantemente sotto gli occhi e che noi rinneghiamo intenti a scindere, tagliare, distinguere, giudicare, sentenziare, per sentirci uomini senza la complicità di un corpo bistrattato oltre la funzionalità estetica e la cui bellezza è nell’imperfezione che, nella rottura, cede all’umile condizione e sente, solamente sente, sospingendoci verso un’identità che non necessita di molto altro che non sia ciò che ha già intorno.

Il viaggio di questa estate è una storia più ampia, ora appena accennata, una storia che faremo passare dal Mediterraneo di Simenon e da una camminata cretese di cui parleremo.

Ora ripartiamo e lo facciamo con la scelta di due voci femminili, lo facciamo attraversando il sud che ci è caro, il tema della narrazione di una mancanza, lo facciamo perlustrando le origini, sorvolando il passato, ascoltando il ritmo delle parole, chiudendo gli occhi e provando a sentire cosa risuona di questi femminili interessanti in terra “straniera”, su quel pianeta, Ork, in cui confluiscono i liquidi delle negazioni e delle storie cancellate, le voci dei margini e il buio degli angoli della strada.

Ripartiamo da due donne, da due sud, il Brasile di Carol Bensimon e la Basilicata di Claudia Durastanti, da due modi diversi di raccontare un’assenza e la sua mancanza, due ingressi anomali in dimensioni che, se non fosse per la peculiarità dello sguardo e la verificazione di un evento o un accidente, potrebbero inserirsi in un canale che macera e storicizza lo svolgersi di vite contenute in quelle forme appena catalogate come dimensioni.

Letto l’uno dopo l’altro, prima “Biliardo sott’acqua”, edito da Tunuè (trad. Daniele Petruccioli), e subito dopo “La straniera”, pubblicato da “La nave di Teseo”, ci è parso che da qualche parte narrassero qualcosa di analogo e, nell’istante in cui abbiamo provato a chiedercelo, la risposta è prepotentemente balzata evidente al nostro intelletto, più lento delle intuizioni che si nutrono di attimi, di dettagli e oggetti infinitesimali, di raccordi sfuggenti e di aiuti corporei.

La mancanza è il filo sottile che li unisce. L’assenza: qualcosa che c’è stata e non c’è più, una donna esistita e morta e l’idea della stessa nella prospettiva di chi l’ha amata in una controversa ramificazione del sentimento d’amore che ne fa rivivere pezzi diversi in uno sparpagliato terreno di tessere che, alla luce di un ricordo che si infrange nelle ombre dell’incidente in cui perde la vita, non si incastrano e precipitano nel buio o, ancora, qualcosa che non è mai esistito se non nelle consuetudini e in un primordiale bisogno filiare e che, pertanto, traccia il confine col mondo, separa, chiude, isola, fa maturare in tempi diversi dall’ordinaria attesa, sviluppa microcosmi ed esplode in un talento, in un occhio nuovo, in un urlo, in un ripiegarsi talvolta o in un volo strabiliante in cui la cera rischia di sciogliersi e la caduta potrebbe far male.

Nel romanzo di Bensimon tutto ristagna, come il biliardo immerso nell’acqua, quello del bar dove si consumano le storie di chi non si àncora a nulla perché non c’è nulla o perché la vita, da una certa prospettiva, lasciata la giovinezza, è un gioco che non vale più la pena di giocare, come l’attimo prima della nascita dove tutto intorno è fluido, si è ancora fuori da ogni gioco e c’è ancora spazio per la potenza del sogno.

Dunque, un narrare essenziale e malinconico, un senso di perdita, di donne amate, di complicità, di un tempo dilatato che riprende a scorrere nella rottura di un’illusione, nella morte di chi ha vissuto con noi ed è stato testimone di un’epoca in cui, a dirla con Vasco, “si potevano mangiare anche le fragole” e, nel mancare, ci rammenta che nel gioco ci siamo entrati, che le acque si sono rotte e che il biliardo naufraga insieme a buona parte di quella infinita potenza dei nostri sogni.

Lo stile narrativo, in una scorrevole semplicità che tradisce quella verità scarna che sta oltre ogni orpello e di cui abbiamo detto all’inizio, quella che noi di Ork ci portiamo dentro dal viaggio cretese, è nella decadenza che evocano gli oggetti, nel dettaglio che suggella una fine, nel buio che accompagna il lettore in un’avventura che non ha una soluzione definitiva se non quella dell’accettazione dell’enigma dell’esistenza stessa e nella paura della coscienza che siamo altro in esso, quel pezzo debordante rispetto alla altrui conoscenza dove tutto è confuso, sfugge alla comprensione e al giudizio, ma è vero come poco altro.

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Dall’altra parte, una storia italo-americana, di emigrazione dal sud, di vita sospesa tra l’America, l’idea del futuro, l’ampio dilatarsi delle cose e delle strade, e l’Italia, quel pezzo di Italia fuori da ogni tempo che non sia quello consacrato a un eterno e uguale svolgersi delle azioni che si fanno rito, abitudine salvifica, ossessione che preserva, malattia che salva in un capovolgersi della verità che è essa stessa una verità, dura e indissolubile come la pietra su cui il sud cammina.

E lo straniamento della vicenda della Durastanti è un processo al quadrato, perché l’apolide non è solo nella sospensione tra due Terre, due mondi, due collocazioni temporali che confliggono e producono scintille, ma anche nell’intimo nucleo familiare in cui chi ci genera non si rivolge al mondo con il nostro stesso linguaggio, perché non sente i suoni intorno, non li distingue, si sente fragile, precipita nei silenzi e, sotto un gorgoglio di sentimenti inespressi, conduce una battaglia perenne che è la coperta con cui avviluppare le proprie paure e i propri figli, salvo poi spingerli irruentemente verso la vita che li ha traditi.

E, allora, esplode lo smarrimento di un figlio, si stagliano davanti a noi un padre e una madre ribelli all’atemporalità del sud e alla sorte che ovatta i piaceri, in una ricerca perenne di ciò che ci è negato, in una mancanza da cui uscire con l’ostinazione di chi non cede al labirinto dentro cui i suoni, come i rumori, non hanno accesso per un volere senza misericordia di un dio dimenticato.

E c’è la loro mancanza, ma anche quella dei figli, che imparano la fragilità di chi li ha messi al mondo, facendo finta di nulla, dialogando con loro in una lingua che non è dei segni, ma di un amore che passa dal bisogno di essere “normali”, salvo poi rivendicare il diritto di essere se stessi in scelte di confine, rischiose, ai margini, quasi a volerle riempire di una rivendicazione che non può essere urlata al mondo in altro modo.

Qui lo stile narrativo si nutre di una sapiente costruzione verbale, in un ritmo che, costante, si ripete a intervalli regolari, senza eccessi: frasi brevi, esordio potente che o si ferma o si apre meno irruento per raggiungere il culmine di una collina che discende immediatamente dopo per chiudersi nel silenzio di un punto. La parte iniziale del romanzo contiene una forza tradita da qualche più lungo passaggio in cui l’emozione fluisce più libera pur nella sapienza costruttiva che ha sempre la meglio. Forse, la centralità l’avremmo voluta racchiusa meglio e in un lasso di tempo che talvolta indugia troppo su un Io che deborda, lasciando dietro troppa storia che sta oltre il sipario, la celebrazione. E, forse, nel pretenderlo, ci sfugge il dato che la peculiarità di questa narrazione è esattamente nei silenzi di quei punti a partire dai quali nasce una storia non scritta, nasce il malinconico sguardo che la Bensimon espone alla luce dell’ombra e che qui è sotto, molto più sotto del livello dell’acqua in cui marciscono i sogni.

Ci piace pensare che esista un non-luogo dove queste storie si incontrano e generano la ricchezza dell’esplorazione femminile, quello che ci è parso di cogliere quando abbiamo chiuso i due romanzi e abbiamo incominciato a dare un nome alle nostre mancanze chiedendoci se non siano quelle la chiave del nostro sapere vagare.

Mindy

L'albero capovolto
“L’albero capovolto”, penna su carta, opera di Mork.