È passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta in cui noi Orkers abbiamo messo mano al blog, circa un anno. Non è stata casuale la scelta di lasciarlo in pausa, quasi fosse quello il tempo necessario perché decantasse, perché tornasse, coi suoi tempi, a riemergere non dal nulla, ma da un pregresso illusorio e pieno di una buona percentuale di atti compiuti in nome di un’inesistente identità letteraria contemporanea che, per necessità, abbiamo voluto credere per troppo tempo esistesse ancora. Attualmente le nostre letture sono quasi tutte orientate verso un altrove che, forse, porteremo anche qui, non appena avrà avuto la gentilezza di palesarsi come si deve. Molte, tante richieste sono arrivate dalle case editrici che abbiamo ospitato nel tempo: tutte rigorosamente e naturalmente rifiutate. Non c’è posto attualmente qui per le loro storie, perché non c’è posto dentro di noi per le loro storie. È un tempo precario, lo abbiamo detto più volte. E non abbiamo avuto, nonostante non ci sia mancato in passato lo spirito critico, la capacità di vederlo prima che si manifestasse al nostro sguardo con la violenza dei tempi che sono avanzati prepotentemente dall’anno zero del Covid. Non è un incubo quello in cui siamo immersi, ma una realtà che deve essersi sapientemente consolidata negli anni. E sotto la nostra colpevole cecità.

Cosa resta di fronte al crollo di ogni certezza, di fronte alla coscienza di un futuro incerto non solo nelle modalità di sviluppo, ma anche nell’an, come avrebbero detto i giuristi romani? Resta il presente con tutto il suo carico di responsabilità, perché, se è vero che vivere l’attimo impone un’immersione nell’istantanea di quello che accade, è altrettanto vero che muoversi verso l’una piuttosto che verso l’altra direzione ha delle evidenti ricadute sul passo immediatamente successivo, sia il nostro o quello collettivo, proprio in una fase storica in cui ci siamo sbarazzati della fatica dello stare insieme tutte le volte in cui non c’è assonanza, quasi avessimo dimenticato per strada la ricchezza del confronto tra diversi. Allora o concordanza o isolamento, i due opposti che conducono al rischio di un conflitto. Su più livelli. Non è casuale, dunque, che tutto questo magma risalga in superficie chiedendo ORA di essere scritto e che accada in occasione di un viaggio a Napoli compiuto senza troppi pensieri che non fossero quelli riconducibili non alla spensieratezza della loro cancellazione, ma all’urgenza della comprensione della contraddittorietà del reale, della sua complessità.

Napoli ha dalla sua la coscienza della precarietà dell’esistenza. Non basta ricordare gli innumerevoli eventi che ne giustificano il consolidamento: terremoti, eruzioni, dominazioni. Ma, come la vita ci insegna, non è sufficiente che accada un evento perché ci si accorga di ciò che esso tradisce. E i napoletani non solo hanno avuto la prontezza di vedere più ampiamente le cose, investendo nell’atto del comprendere un piano dell’esistenza tanto ampio quanto lo sono gli sguardi, i loro sguardi, rivolti ai fili che congiungono le nostre storie, ma hanno anche dimostrato che esiste un modo per accedere alla precarietà del reale che non è rimozione, ma un’intelligente sfida allo stare in essa con l’umiltà di chi sa che il contrasto genera solo una reazione uguale e contraria. Convivere con il precario, starci dentro, non affannarsi, pensare che domani la vita potrà ancora regalare l’inaspettato capace di dare la svolta al buio sotterraneo in cui siamo piombati è l’arte di sapere vivere, cogliendo la ricchezza di ciò che non si sa. È il grande tema di una società tutta che ha rimosso la fine, il suo senso, l’opportunità del desiderio nella manifestazione di un bisogno, la vita che con la morte non si annulla, ma si rafforza e si radica non nell’opposizione ad essa, ma nell’essere il suo fisiologico contraltare. Ogni pezzo della storia e della civiltà napoletana è in qualche modo la testimonianza di ciò. La luce invadente del lungomare napoletano trova la sua perfetta antinomia nel buio soffuso che invade il centro della città quando gli ultimi turisti lasciano che i vicoli vengano sopraffatti dalla silenziosa oscurità con cui cessa ogni affanno e la città si guarda piangente dentro per il tempo della notte prima che sorga il sole. La maschera di Pulcinella ne è lo specchio. Nonostante la sua esuberanza, quasi ai limiti dell’inaccettabile, in nome delle regole della commedia dell’arte, in uno splendido omaggio alla città di Pietro Marcello, “Bella e perduta”, questo irriverente menestrello del sud si incarica, quale punto di congiunzione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, di esaudire il desiderio di un pastore di portare in salvo un piccolo bufalo, facendosi latore di un malinconico sentire che nel cuore partenopeo è anche lo sguardo tremulo di Massimo Troisi, pronto a dileguarsi in un pianto perennemente rinviato. Tenere insieme gli opposti: questo è Napoli.

A pochi passi dall’invasione turistica di via dei Tribunali, esiste un raccolto punto di ridimensionamento di ogni affanno terreno, incluso quello mangereccio: si tratta del complesso museale di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, al cui interno, poco sotto il caos dell’ostinato e incessante passaggio umano, trova spazio l’Ipogeo, una chiesa sotterranea, oltre che un omaggio alle anime del Purgatorio, quelle anime sospese per cui, in uno scambio reciproco, chi aveva terreno bisogno chiedeva, con voti e preghiere, l’intercessione dall’alto in favore delle medesime perché avanzassero di grado. Il culto si spingeva fino all’adozione delle anime nelle forme pagane della raccolta dei teschi, ma, qualunque ne fosse il grado di relazione, lo scopo era un’utilità reciproca, una congiunzione tra sopra e sotto, ancora possibile per la vicinanza a terra delle capuzzelle. Non ascese ancora ai piani più alti, gettano uno sguardo di pietosa richiesta a chi è ancora giù, confidando nella mancanza dell’altro. E sostituendosi ai santi nella visione ostile di una Chiesa ancorata alle sue verità, con intermediari rigorosamente insigniti al seguito. Un discorso estremamente semplice e intriso di napoletano paganesimo in una città in cui il bisogno con tutte le sue derivazioni non è mai mancato. Dall’opulenza del piano superiore si accede, per il tramite di una piccola scala, al piano inferiore dove, unitamente alla chiesa che, nella sua essenzialità, rammenta le diverse logiche di un altro sistema di valutazione fuori dalla nostra superbia, attraverso un piccolo corridoio, trova spazio l’ambiente cimiteriale. In una dimensione meno metafisica della vista improvvisa dell’altare appena giù e più violenta nell’approdo dai piani alti di questo misero tempo, l’ultima tappa del percorso, in un’esplosione che è culmine di tensione e successivo livellamento di ogni cosa, secondo gli insegnamenti del principe De Curtis, svela le ambiguità del sentire umano, nelle libere, mitiche e più popolari, interpretazioni degli eventi, nel culto, in una delle nicchie votive, rivolto a una nota Lucia, per alcuni, la versione ufficiale, giovane figlia di nobili origini sottratta alla vita e al promesso sposo da una grave malattia e lì condotta per amore e volere paterno, per altri, la lettura del popolo, suicida per amore e protettrice delle giovani spose. Ce lo spiega una donna dagli occhi grandi e neri incuriosita dalle nostre parole. La stessa che, nella risalita verso i Tribunali, ci augura “Buona Vita”, rammentandoci, qualora lo avessimo dimenticato, l’intersecarsi di vita e morte.

Non abbastanza paghi del promiscuo incedere delle due vie, proseguiamo lungo la strada ed entriamo alla fondazione Banco di Napoli, presso Palazzo Ricca, dove, fino al 16 giugno, è possibile ammirare “La presa di Cristo”, di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Fuori da ogni considerazione di stampo artistico che non ci compete, l’ingresso, al calare del sole, di quel sole che pure non rinuncia a segnalare la sua presenza nella sala in cui è esposta l’opera, ritagliandosi il suo pur contenuto dominio negli spazi lasciati liberi dalle tende, è un’avventura nel buio, negli scuri illuminati caravaggeschi. Nessuno come Caravaggio ha saputo muoversi nel buio con tanta destrezza. Così il sole si confronta con l’altro lato della faccenda e si completa, arricchendosi dell’opportunità di un cammino che è in fondo un’altra luce e un’altra lettura delle cose, altrettanto necessaria: non la confusione dei contorni nitidi, ma un’altra distinzione, dove i confini si fanno labili e le identità scivolano sui corpi regalandoci un altro modo di stare al mondo.

Il resto sono le camminate verso il mare, gli incontri improbabili con viaggiatori stranieri in cerca di Anime con cui rileggere desideri e aspirazioni di un tempo che, in ogni angolo, nega e impone ricerca, la pizza e la montanara, quei sapori altri, quell’esplosione di colori e incastri di gusto, le conversazioni con il nostro fidato libraio nella caotica libreria “Dante e Descartes” di piazza Dante dove i libri accatastati rivelano un passaggio tumultuoso di nuovi arrivi che cercano posto nell’immaginario degli innumerevoli viandanti, il cameriere incantato dalla nordica bellezza seduta al tavolo, Pino Daniele che risuona di qua e di là, il vascio in cui trascorrere la notte, una mostra dei giovani studenti del Liceo Artistico di Napoli in largo SS. Apostoli, dove si affacciano ricordi di un tempo lontano, il nostro, in cui tutto era bello perché in potenza, perché ogni cosa poteva ancora essere, unitamente alle visioni di chi qui è cresciuto e ancora vive e non sa ancora che le vie del Signore non sono infinite o, forse, già ci convive in una saggezza che è fuori dall’idea del controllo e del futuro programmato. In fondo, loro già sanno da qualche parte di essere “lazzari felici” col cui passaggio “s’acconcia ‘o tiempo”. Anche il nostro.

Mindy

Foto: Mork.

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