Il pianeta Ork, sollecitato dalla lettura de “Il tempo e l’acqua” (Iperborea), di Andri S. Magnason, ha deciso di sottoporre un po’ di dubbi e di potenziali riflessioni sorte per merito dello scrittore islandese a tre diverse personalità del mondo culturale. La scorsa settimana abbiamo ospitato Ezio Sinigaglia in qualità di scrittore. Abbiamo creduto che il suo intervento non ci avrebbe lasciato indifferenti e che, con l’arte della parola, ci avrebbe accompagnato in un viaggio assolutamente arricchente per creazione di scenari possibili, smantellamento di improprietà lessicali e concettuali, rivoltamenti letterari funzionali al moto riflessivo. Così è stato. Oggi, è il turno di un antropologo che scrive e che, nell’assoluta originalità di un percorso di ricerca, rappresenta un caso abbastanza raro di coesione tra scrittura e pensiero personale che, pur risentendo della formazione scientifica o proprio per suo merito, non cede alle lusinghe del mercato editoriale e sperimenta e prova a innovare, convinto che poeti e artisti abbiano un compito più importante delle mire alla gloria. Matteo Meschiari è giunto su Ork nella forma priva di speranza del crepuscolo offerto da “Neghentòpia” (Exòrma) per poi arrivare a prendersi un posto speciale nel nostro immaginario attraverso la bellezza di Libera che, ne “L’ora del mondo” (Hacca edizioni), ci concede il margine di una trasformazione ancora possibile a fronte del buio delle città e degli uomini che hanno tradito l’esistente nell’ostinata direzione di un libero arbitrio votato alla distruzione. Più di recente, è stato il suo “Antropocene fantastico”, edito da Armillaria, a fornirci, tra critiche e osservazioni, dentro un sapere polimorfo, appigli funzionali a rendere le mancanze attuali punto di partenza di un futuro ancora inimmaginabile. Oggi, risponde alle nostre domande e lo fa nella maniera che gli è più congeniale: ricorrendo alla sintesi e invitando il lettore a cogliere tutto quello che traccia nel non detto. In fondo, lasciandoci liberi di scegliere, non senza qualche avvertimento.
1. Il libro di Andri S. Magnason, “Il tempo e l’acqua”, recentemente edito da Iperborea, fa leva sulla misurazione della velocità del tempo attuale attraverso il riferimento al superamento dei tempi geologici nella considerazione del mutamento della realtà intorno. Tutto cambia alla velocità dell’uomo, senza che questo implichi una capacità di controllo da parte dello stesso. Abbiamo, cioè, generato un processo che ci è sfuggito di mano. Dice Magnason: “Quando abbiamo imparato ad attraversare i ghiacciai, a contare i luoghi di nidificazione dei coccodrilli e a studiare il canto delle megattere, eravamo ormai tanto forti e ingombranti che tutto quello che finalmente sapevamo misurare e capire stava già scomparendo”. Di cosa è fatto, secondo voi, il limite di fronte a cui deve arrestarsi la volontà dell’uomo perché la capacità di comprensione non degeneri in dominio dell’esistente? E, se abbiamo perso i riferimenti tradizionali per collocarci nel tempo, in una dimensione sbrigliata oramai da ogni griglia, cosa ci radica nel “qui e ora”?
Il Tempo è il problema numero uno dell’Antropocene. Proprio come un blocco culturale-cognitivo ci impedisce di vedere e capire gli iperoggetti del collasso, allo stesso modo l’idea di tempo si è sgretolata, con un futuro non immaginabile, un passato manipolabile, e un presente-trappola che ci tiene incollati alla cronaca anziché ai ritmi del cosmo. Reagire al collasso del tempo è questione immaginativa, collettiva, politica. Le vie sono molteplici, quella che personalmente pratico è la lettura narratologica della storia, una scienza degli scenari passati per leggere i possibili scenari futuri. Cercare una “soluzione” narrativa, inventare narrazioni alternative a quelle tossiche del fascismo, dello scientismo tecnologico, del populismo acritico, è una via antifragile per orientarsi nell’onnipresente con-fusione tra finzione e realtà, che è poi all’origine della grande cecità dell’Antropocene.
2. Con il sopraggiungere della pandemia e il conseguente lockdown molti credevano fosse giunto il momento ideale perché si ponesse all’attenzione generale e alla coscienza dei singoli l’opportunità di un cambio di rotta rispetto a una serie di abitudini di vita e di produzione che hanno contribuito al collasso del sistema Terra. Eppure, allo stato attuale, non sembrerebbe accaduto nulla di quanto sperato da questo lato. Dice Magnason: “Quindi credo che, quando gli esseri umani finalmente capiranno che la collaborazione è l’unica via per risolvere il problema, potremo incontrarci e lavorare insieme. Ma credo anche che non lo faremo finché non saremo messi alle strette, finché la crisi non sarà tanto profonda da non lasciarci scelta”. Cos’altro deve succedere perché l’uomo prenda coscienza della propria precarietà e impieghi il tempo per tornare sui suoi passi? Mi spiego meglio: perché l’ansia, il panico, le fobie che stanno interessando molti di noi non riescono ad agire come motore di trasformazione del sentimento negativo che nutriamo verso l’altro in sguardo intimo rivolto a noi e ai nostri limiti?
Innumerevoli eventi storici mostrano come il limite di tolleranza al peggio sia l’annientamento, nel senso che, come la rana nella pentola, finiamo per restare bolliti per inerzia, assuefazione, passività. Jared Diamond in Collasso lo ha spiegato bene, c’è un ritardo cognitivo nella presa di coscienza del crollo imminente che ha come unico esito possibile la catastrofe. In buona sostanza è impreparazione al peggio, negazione dello scenario spiacevole, attaccamento allo status quo, escapismo, fede in un deus ex machina. Personalmente non credo che paura, dolore, ansia abbiano il potere di svegliare. Al contrario sono l’humus su cui germogliano visioni collettive, fedi, abbagli epocali che ci condannano alla quiescenza o peggio. Ci vorrebbe una rivoluzione cognitiva, ma intanto bisogna capire che il crollo genera non rinascita, il crollo genera il deserto.
3. Veniamo alla parola con cui lavorate tutti e tre. Recita un passaggio del testo qui preso in esame: “Se c’è una cosa che contraddistingue i nostri tempi, quella è la guerra per le parole, per il potere di definire la realtà e il sistema economico, di formulare e diffondere notizie. È una guerra combattuta per stabilire con che parole esprimere il mondo. Sono le parole a creare la realtà: per qualsiasi sistema di potere è fondamentale possedere le parole e i mezzi di comunicazione per farle circolare”. Quanto la gestione comunicativa mediatica ha influito sulla percezione del pericolo e della gravità della situazione pandemica? Quanto l’avere calcato la mano sul dato delle morti, soprattutto in una fase iniziale, ha inciso paradossalmente sulla fatica di comprendere e sulla fuga dalla realtà successiva affermatasi prepotentemente con il flusso dei negazionisti?
Questa interpretazione presuppone una regia manipolatrice di alto livello, una biopolitica organizzata e predeterminata. Per me lo scenario è molto più squallido: impreparazione tecnica e politica, adozione di un cerchiobottismo criminale nella gestione pandemica, stanchezza e usura psicologica. Io non vedo grandi burattinai, solo burocrati opportunisti o imbecilli che non hanno avuto il coraggio di affrontare il problema nell’unico modo possibile: un lockdown rigido e breve anziché la pagliacciata delle zone colorate e lo stiracchiamento illimitato della pandemia. In questo le parole sono commisurate a chi le usa. Non vedo né agenti oscuri della propaganda né chiacchieroni dotati di un qualche potere reale. Non sono le parole ma le immagini il vero campo di battaglia, e qui dovrebbero intervenire artisti e poeti, ma sembrano molto occupati a fare mostre e farsi pubblicare.
4. Se ammettiamo che la letteratura non è strumento di evasione, ma forma di discernimento del reale, cosa si salva ancora? L’impressione è che molto della produzione editoriale sia svuotato rispetto a ciò che sta accadendo, avvertendosi questo più del passato. Cosa ha senso scrivere? Che cosa può ancora parlare di noi in questo tempo che procede a una velocità senza precedenti e farlo alla luce di un’ottica in cui ciò che si scrive possa rimanere più o meno “eterno”? Può essere che un genere nuovo stia sorgendo e che sia un ibrido che risente delle competenze specifiche dell’autore e della loro influenza sul suo sguardo rivolto al mondo?
Troppo presto per dirlo. Inoltre bisogna notare che ci sono diverse velocità di reazione, diverse zone culturali in ballo, diverse remore nell’assecondare lo zeitgeist narratologico. L’America e l’Italia sono pianeti diversi, reagiscono in modo diverso all’Antropocene, l’editoria nei rispettivi paesi è diversamente porosa o impermeabile. In Italia c’è un vero e proprio sforzo a concerto per sostenere quello che potremmo definire un negazionismo editoriale. In questi giorni stanno uscendo ad esempio molte recensioni a Il silenzio di DeLillo, non ne ho vista nessuna che ha affrontato davvero di petto il nocciolo del libro: il collasso in atto. Per dire che la parola d’ordine è disinnescare l’orrore e continuare a vendere libri su famiglie disfunzionali e amori borghesi.
5. Dice Magnason: “Forse allora andrà a finire bene, qualsiasi cosa succeda”. C’è una fiducia sottesa nell’ordine delle cose. Pensate sia così? Quanto il pensiero e l’immaginazione connessi ai vostri ambiti di elezione possono anticipare quello che ancora alla realtà manca? Che ruolo hanno l’antropologia, la psicanalisi e la letteratura, quanto possono contribuire, non a rassicurare, ma a invitare l’uomo a un’interazione con l’esistente e in che modalità?
L’antropologia e la psicanalisi non si studiano a scuola, la letteratura che si studia è storia della letteratura. Direi che in questo c’è la risposta. Come possiamo sperare in una nuova generazione attenta, consapevole, attiva, reattiva, se non le si danno gli strumenti giusti per pensare l’impensabile?
Grazie a Matteo Meschiari