Dalla Liguria alla Costiera amalfitana. Storia di un’estate.

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Framura, Liguria, estate 2018.

Anche su Ork è stato tempo di vacanze, quelle necessarie dopo dodici complessi mesi in cui è successo molto e di cui, in buona e possibile parte, abbiamo raccontato in questo luogo a cui abbiamo dato vita più o meno un anno fa.

La scelta di partorire un “qui si può” è stata fondamentale non solo perché ci ha consentito di crescere rendendo le parole e le immagini strumento indispensabile a quella forma che ci è in qualche modo indispensabile per stare a Terra, ma perché ha rivelato a noi desideri verso cui volgere lo sguardo laddove il senso di precarietà si ancora alle nostre esistenze rendendole vittime della fine.

Le vacanze sono state una prosecuzione, fuori da questi palinsesti, di un viaggio senza il quale non saremmo Mork e Mindy, viaggiatori viaggianti, dicevamo in uno degli ultimi pezzi, non più da salvare, ma da lasciare andare.

E, questa estate, siamo partiti dal Nord, dalla Liguria, prima ancora che la tragedia di Genova colpisse al cuore non solo una delle città più ricche di storia e cultura del nostro Paese, ma il Paese tutto, in quell’unità che oggi sembra sfaldarsi con la stessa facilità con cui pare finita nel nulla quella parte politica che credeva che i più deboli, gli emarginati, i più poveri dovessero essere salvaguardati, protetti, garantiti e portati al livello degli altri, in una dignità magnificamente cantata a suo tempo da De André.

Siamo finiti a ridosso delle Cinque Terre senza caderci dentro, al limite, dove tutto, forse complice questa collocazione mediana, ci è parso essere e non essere, in un tempo nostro nutritosi di paure e di pipistrelli nei versi notturni e nell’incauta decisione di una finestra aperta, di risate e storie strane, di birra serale su una sdraio anni settanta a guardare il mare dall’alto di un uliveto, di cene all’aperto sotto degli alberi da frutta a mirare i pendii della collina illuminata a sprazzi quel tanto che basta a non perdersi per sempre nella notte.

In questa vacanza in cui ci siamo cercati, trovati complici di una rinnovata voglia di nuove forme, ci siamo chiesti quanto il senso di sospensione indotto dal piccolo paese ligure non avesse a che fare con la nostra indefinizione, con il nostro volerla finalmente guardare in faccia, volerci stare dentro per toccare il fondo dello smarrimento e riemergere, come dai fondali di queste acque, più ricchi e coscienti che giù non è poi tutto così male, tra afflato vitale possibile e sguardi più attenti alle dimensioni infinitesimali in cui c’è Vita e senso molto più che in superficie.

Immersi nella luce malinconica, in una sorta di Normandia in Italia, tra lingue diverse, in una perfetta e rispettosa convivialità non solo tra uomini, ma anche tra uomini e animali, in cui una capra in cerca d’erba sul dirupo che si affaccia sul mare ci insegna il coraggio di vivere in un’etica di natura dimenticata, abbiamo lasciato correre il tempo comune fuori da noi e ci siamo riappropriati di un tempo nostro nei passi lenti, nelle attese, nelle gioie dilatate e nelle paure ridimensionate.

Ma, poi, alla fin fine che cosa cerchiamo se non noi stessi, il nostro senso che si apra sì al mondo, ma che si raccordi alle origini? E, allora, sempre al sud, a Itaca torniamo, noi che dal sud veniamo.

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Costiera amalfitana, estate 2018.

Cerchiamo quello nostro, possibile, in cui sentirsi “a casa” anche lontani dalle case in cui abbiamo conosciuto e vissuto la nostra infanzia e la nostra adolescenza.

E siamo scesi in costiera amalfitana, luogo di un pezzo di adolescenza felice per Mork e di studi per il mio papà che di Amalfi in particolare mi raccontava e di cui conservo una sua foto in cui, seduto al caffè di fronte al Duomo, si pavoneggia tra compagni e la prof di filosofia di cui pare fosse l’alunno prediletto.

Ci saremmo dovuti andare insieme, ma la vita gioca strani scherzi e non è andata esattamente come avremmo voluto, anche se in quei luoghi Francesco è stato così presente in queste vacanze da non farmi sentire sola neanche un attimo.

Era nella luce sul porto, quella del tramonto, malinconica come lo sguardo che aveva quando dalla terrazza di casa guardavamo le stelle nel cielo sopra di noi, era nella padronanza del mare degli scugnizzi di supporto alle attività del porto, era nella fiduciosa e paziente attesa dei pescatori.

È nella mia voglia di ripartire dalle Lettere, sua materia, nostro mondo.

Abbiamo goduto del silenzio divino di Ravello, tra il ricordo di un amore passato di Mork lì vissuto e la coscienza del nostro presente, abbiamo mangiato la frittura di pesce e gli gnocchi alla sorrentina, abbiamo conosciuto una janara bianca, una sibilla vietrese, una splendida donna di origine brasiliana e campana, dai lunghi capelli ricci e neri, la femminilità di un gatto mentre ondeggia in un perfetto equilibrio a rammentarci la flessuosa danzante capacità delle donne a stare nei giri della vita, che ci ha letto l’anima e profetizzato un futuro che non riveliamo.

Abbiamo visitato calette inesplorate, viaggiato per mare, ci siamo persi nell’azzurro denso del mare che si allontana dalla costa e abbiamo trovato illusorio sostegno nei faraglioni quasi alla nostra portata, abbiamo sentito le correnti oltre la protezione degli scogli e resistito alle forze che portano via, lontano dall’unica certezza della vita, gli affetti, l’amore, noi.

Abbiamo indossato abiti maschili e femminili, visto il nostro corpo cambiare colore, accendersi sotto il sole, lo abbiamo sentito vivo e non ne abbiamo avuto paura.

Abbiamo avuto i nostri riti, l’aperitivo sul lungomare e il limoncello in un piccolo bar dove Pino Daniele e Vasco ci hanno accompagnato nelle notti mentre salivamo verso “casa”.

Abbiamo atteso a lungo passare un autobus, abbiamo intuito che per sopravvivere ci saremmo dovuti adattare allo spirito del posto e abbiamo anche capito una delle ragioni per cui non riusciamo a vivere al sud, ammesso che non lo sapessimo già, nonostante tanta bellezza.

Abbiamo conosciuto gente nuova, una ragazza catanese e scambiato opinioni su questo nostro sud, abbiamo ammirato gli autisti della Sita e i loro capolavori di manovra lungo le curve a strapiombo sui dirupi della costiera.

Li vorremmo in posti di responsabilità a guidare il Paese tra serietà, disponibilità verso il prossimo, gentilezza, umanità e salvifica ironia.

Abbiamo visto anche l’incuria e un mare non sempre limpido.

Ho rivolto lo sguardo verso il basso, giù verso le acque del porto di Amalfi, mentre attendevamo che partisse il piccolo traghetto che ci avrebbe condotto a Minori: qualche carta sporca di troppo, uno sciame di pesci, mentre mi chiedevo quanti di loro avrebbero pagato per la plastica che galleggiava a qualche metro da loro.

Poco distante una madre del posto soddisfaceva il desiderio del suo bambino di guardare la grande distesa d’acqua da terra prima che si facesse l’ora della partenza e penso che nulla descriva meglio la condizione di chi questi luoghi li abita come le parole di Davide Vargas in un libro edito da Pironti e acquistato a Napoli mesi fa. Così lui si esprime: “Il nostro abitare tragico, il silenzio della ribellione”.

Lo acquistai di impulso, non è recente e ha una splendida copertina.

Racconti di qui

 

Recita la dedica: “Alla mia terra che offre continui spunti di dolore e di amore”.

Del senso del libro dice molto bene, come poche altre in giro, la sua prefazione, ma qui vogliamo riportare uno stralcio di questo libro che è quasi un diario: “Qui da noi la bellezza deve lottare con la controparte. Un marcantonio grosso che tira cazzotti che fanno un male boia. Fino a uccidere. Allora la bellezza finge di soccombere per acquattarsi dolorante tra le pieghe in attesa. È pur sempre una salvezza”.

Vargas racconta di quella zona nota alle cronache e collocata tra Napoli e Caserta, seppure qui in un viaggio che è intimità e silenzio, perseverante e disperata attesa, oltre la normalità del rassegnato vivere quotidiano.

Io penso che racconti molto di un sud che Mork e Mindy conoscono bene, quello che amiamo, che ci procura sofferenza in quegli istanti in cui lo vorremmo migliore e cadiamo vittime di un’impotenza che si riversa su di noi con la stessa forza con cui certe relazioni e certe origini riescono ancora a espatriarci.

Mindy

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“Origine”, olio su tela, opera di Mork.

 

 

 

 

Napoli e noi: da “Malacqua” alla felicità.

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E’ mattina anche su Ork.

Apro la finestra, c’è un po’ di sole e io ho bisogno di fare entrare luce nella stanza.

Ieri, un vento forte pareva volesse portarsi via la casa, come se in un soffio potessero volare via desideri e storie, sacrifici e speranze, ma per fortuna la Vita non funziona esattamente così.

Nell’aria fredda che ci ha restituito tutta la consistenza fisica dei nostri corpi, nel buio naturalmente anticipato di un pomeriggio di dicembre, io e Mork in giro per le strade fredde di Bologna, a calpestare ciottoli bianchi di sale o di grandine, abbiamo creduto per il tempo di una sera di essere Dorothy e lo Spaventapasseri, cercato le scarpette rosse e temuto di volare via.

Questa mattina, ritrovandomi e ritrovandolo ancora qui, ho pensato che avesse un suo senso tornare a Terra tra acqua e ricerca di senso, tra fuoco e desideri, tra paure e voglia di vivere, in una connessione personale e neanche tanto aliena che da “Malacqua” arriva all’ “Arte della felicità” in un giro che è apocalisse e principio, buio e luce, acqua e fuoco, in un viaggio dentro Napoli e dentro di noi, secondo direzioni ostinate e contrarie ai tempi, quelle che Ork non cessa di seguire.

Avevo scoperto tempo fa il libro di Nicola Pugliese, pubblicato in origine da Einaudi (più di recente da Tullio Pironti), nonostante la ferma volontà dell’autore di non cedere ai consigli di Calvino che certamente non era l’uomo qualunque, ma, forse, non poteva da non napoletano comprendere lo spirito che si pone oltre il flusso del testo, quel flusso che si compone di pensieri lunghi, quasi un dispiegarsi ininterrotto della mente, di parole che stanno al loro posto in una dimensione semplice e ruvida dell’esistenza che cela tutto quello che sfugge, seppellito dalla pioggia che colma i vuoti della città partenopea in un tempo di quattro giorni che pare infinito.

Perché la storia è la quasi discorsiva, giornalistica narrazione di tutte quelle vite che Nicola Pugliese racconta nel diluvio dai contorni apocalittici di una città in attesa di qualcosa, un’attesa che è “malattia sfibrante progressiva, che afferra alla gola e stringe”, ma anche possibile preludio di una rinascita necessaria, di un risveglio, di un’opportunità, è la storia di chi cerca quello che ancora manca, di chi non si arrende al tempo che passa e ai turni di giovinezza che la vita impone ed esige, di chi ha ceduto alla fine di un sogno, d’amore o d’altro, di chi è perito sotto l’ostinata idea di un sud fatalista per cui non importa quello che è tuo e ciò che è mio, anche dal lato delle responsabilità, poiché, a ben guardare, ciò che “deve” accadere accade lo stesso, oltre ogni azione umana, in un fluire che si fa assenza di controllo, ma anche caos senza speranza attraverso le parole che provocatoriamente inducono a celare l’origine dei disastri, come se tutto dovesse essere ammesso nell’evidenza dell’ineluttabilità della fine delle cose (“E’ tutto inutile: siamo tutti in attesa che succeda qualcosa”).

E Napoli diventa città oltre ogni stereotipo, città buia, piena d’acqua, pioggia che scende, che ferma le auto, crea voragini e inghiotte la disperazione della gente comune, come se ciò che sta fuori rivelasse la tempesta emotiva di chi non la vive più per un’assuefazione all’ordinario andamento delle cose che si traduce in sconfitta e malattia e spaventa e toglie il respiro, quasi inducendo i suoi abitanti a riprendersi la loro parte di indignazione e di coscienza di essere attori agenti di un destino che è anche scelta e responsabilità.

E se giustizia manca, perché gli uomini tradiscono ciò che la società esige per continuare a essere, non ascoltano i bisogni di chi non ha nulla, calpestano i diritti di chi manca della materia prima e del prestigio che, oggi come ieri, ne garantiscono l’unica forma di rispetto, un’artefatta riverenza, una bambola nascosta nel palazzo del consiglio comunale urla lo scempio non solo della politica, ma delle vittime di essa, facendosi portatrice di una disperazione senza conforto e speranza, e il mare, fatto oggetto di divieto di balneazione e unica risorsa di parvenza immaginifica d’estate agli occhi di chi non ha gli strumenti per cercarsela altrove, la sua estate, raggiunge i bimbi di Montedidio e si schiera laddove gli uomini non sono più capaci di farlo, in una dimensione di salvezza riservata ai più piccoli e all’adolescente che, annichilita dal protagonismo manipolatore materno e rinfrancata dall’amore, fragile, paterno, si fa espressione pura di coscienza dell’inutile senso che gli adulti si affaticano a dare alle cose.

Insomma, la vita ostile alla poesia, nonostante il romanzo ne sia, in qualche modo, nell’intreccio con una realtà che pure denuncia, una celebrazione dietro le quinte.

E, in questo, “Malacqua” sfiora, fino a confondersi nell’apocalisse piovana, “L’arte della felicità”, graphic novel di produzione partenopea, cartone pluripremiato e poesia rara in tempi in cui parlare d’anima è tanto diffuso, quanto abusato e svuotato di senso in spicciole soluzioni di vita offerte a ogni angolo di strada.

Rak racconta della famiglia, delle origini, di due fratelli di sangue che si fanno anima unica perché si riconoscono oltre ogni forma sociale, narra di quello che gli altri si attendono da noi e della nostra fuga da noi, giustificata dall’illusoria convinzione di potere non finire, laddove non nasciamo, di come ci illudiamo di essere senza aspettative per non avere delusioni, del diritto ad amare, dei punti che congiungono noi, l’amore e le origini, laddove l’anima ci chiama e il senso delle cose finalmente torna.

“L’arte della felicità” è l’intimità imposta dal buio e dal diluvio, è la ricerca di sé e del proprio posto nel mondo, oltre il taxi con cui il protagonista lavora per comodo ripiego e oltre il quale ci sono i suoi sogni, è l’acqua che scroscia tanto da far perdere di identità chi sotto ci casca imponendogli una ricerca oltre le comode apparenze.

“L’arte della felicità” è un viaggio, è Ork, sono i suoi abitanti, è l’idea che arriva un punto in cui cedere a se stessi e quel punto è la felicità.

 

Mindy

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