rak

E’ mattina anche su Ork.

Apro la finestra, c’è un po’ di sole e io ho bisogno di fare entrare luce nella stanza.

Ieri, un vento forte pareva volesse portarsi via la casa, come se in un soffio potessero volare via desideri e storie, sacrifici e speranze, ma per fortuna la Vita non funziona esattamente così.

Nell’aria fredda che ci ha restituito tutta la consistenza fisica dei nostri corpi, nel buio naturalmente anticipato di un pomeriggio di dicembre, io e Mork in giro per le strade fredde di Bologna, a calpestare ciottoli bianchi di sale o di grandine, abbiamo creduto per il tempo di una sera di essere Dorothy e lo Spaventapasseri, cercato le scarpette rosse e temuto di volare via.

Questa mattina, ritrovandomi e ritrovandolo ancora qui, ho pensato che avesse un suo senso tornare a Terra tra acqua e ricerca di senso, tra fuoco e desideri, tra paure e voglia di vivere, in una connessione personale e neanche tanto aliena che da “Malacqua” arriva all’ “Arte della felicità” in un giro che è apocalisse e principio, buio e luce, acqua e fuoco, in un viaggio dentro Napoli e dentro di noi, secondo direzioni ostinate e contrarie ai tempi, quelle che Ork non cessa di seguire.

Avevo scoperto tempo fa il libro di Nicola Pugliese, pubblicato in origine da Einaudi (più di recente da Tullio Pironti), nonostante la ferma volontà dell’autore di non cedere ai consigli di Calvino che certamente non era l’uomo qualunque, ma, forse, non poteva da non napoletano comprendere lo spirito che si pone oltre il flusso del testo, quel flusso che si compone di pensieri lunghi, quasi un dispiegarsi ininterrotto della mente, di parole che stanno al loro posto in una dimensione semplice e ruvida dell’esistenza che cela tutto quello che sfugge, seppellito dalla pioggia che colma i vuoti della città partenopea in un tempo di quattro giorni che pare infinito.

Perché la storia è la quasi discorsiva, giornalistica narrazione di tutte quelle vite che Nicola Pugliese racconta nel diluvio dai contorni apocalittici di una città in attesa di qualcosa, un’attesa che è “malattia sfibrante progressiva, che afferra alla gola e stringe”, ma anche possibile preludio di una rinascita necessaria, di un risveglio, di un’opportunità, è la storia di chi cerca quello che ancora manca, di chi non si arrende al tempo che passa e ai turni di giovinezza che la vita impone ed esige, di chi ha ceduto alla fine di un sogno, d’amore o d’altro, di chi è perito sotto l’ostinata idea di un sud fatalista per cui non importa quello che è tuo e ciò che è mio, anche dal lato delle responsabilità, poiché, a ben guardare, ciò che “deve” accadere accade lo stesso, oltre ogni azione umana, in un fluire che si fa assenza di controllo, ma anche caos senza speranza attraverso le parole che provocatoriamente inducono a celare l’origine dei disastri, come se tutto dovesse essere ammesso nell’evidenza dell’ineluttabilità della fine delle cose (“E’ tutto inutile: siamo tutti in attesa che succeda qualcosa”).

E Napoli diventa città oltre ogni stereotipo, città buia, piena d’acqua, pioggia che scende, che ferma le auto, crea voragini e inghiotte la disperazione della gente comune, come se ciò che sta fuori rivelasse la tempesta emotiva di chi non la vive più per un’assuefazione all’ordinario andamento delle cose che si traduce in sconfitta e malattia e spaventa e toglie il respiro, quasi inducendo i suoi abitanti a riprendersi la loro parte di indignazione e di coscienza di essere attori agenti di un destino che è anche scelta e responsabilità.

E se giustizia manca, perché gli uomini tradiscono ciò che la società esige per continuare a essere, non ascoltano i bisogni di chi non ha nulla, calpestano i diritti di chi manca della materia prima e del prestigio che, oggi come ieri, ne garantiscono l’unica forma di rispetto, un’artefatta riverenza, una bambola nascosta nel palazzo del consiglio comunale urla lo scempio non solo della politica, ma delle vittime di essa, facendosi portatrice di una disperazione senza conforto e speranza, e il mare, fatto oggetto di divieto di balneazione e unica risorsa di parvenza immaginifica d’estate agli occhi di chi non ha gli strumenti per cercarsela altrove, la sua estate, raggiunge i bimbi di Montedidio e si schiera laddove gli uomini non sono più capaci di farlo, in una dimensione di salvezza riservata ai più piccoli e all’adolescente che, annichilita dal protagonismo manipolatore materno e rinfrancata dall’amore, fragile, paterno, si fa espressione pura di coscienza dell’inutile senso che gli adulti si affaticano a dare alle cose.

Insomma, la vita ostile alla poesia, nonostante il romanzo ne sia, in qualche modo, nell’intreccio con una realtà che pure denuncia, una celebrazione dietro le quinte.

E, in questo, “Malacqua” sfiora, fino a confondersi nell’apocalisse piovana, “L’arte della felicità”, graphic novel di produzione partenopea, cartone pluripremiato e poesia rara in tempi in cui parlare d’anima è tanto diffuso, quanto abusato e svuotato di senso in spicciole soluzioni di vita offerte a ogni angolo di strada.

Rak racconta della famiglia, delle origini, di due fratelli di sangue che si fanno anima unica perché si riconoscono oltre ogni forma sociale, narra di quello che gli altri si attendono da noi e della nostra fuga da noi, giustificata dall’illusoria convinzione di potere non finire, laddove non nasciamo, di come ci illudiamo di essere senza aspettative per non avere delusioni, del diritto ad amare, dei punti che congiungono noi, l’amore e le origini, laddove l’anima ci chiama e il senso delle cose finalmente torna.

“L’arte della felicità” è l’intimità imposta dal buio e dal diluvio, è la ricerca di sé e del proprio posto nel mondo, oltre il taxi con cui il protagonista lavora per comodo ripiego e oltre il quale ci sono i suoi sogni, è l’acqua che scroscia tanto da far perdere di identità chi sotto ci casca imponendogli una ricerca oltre le comode apparenze.

“L’arte della felicità” è un viaggio, è Ork, sono i suoi abitanti, è l’idea che arriva un punto in cui cedere a se stessi e quel punto è la felicità.

 

Mindy

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