L’osservazione critica più evidente che si può muovere alla recentissima edizione del Salone Internazionale del libro di Torino è probabilmente quella di non avere resistito a sufficienza al bisogno di normalità manifestato dall’invasione del Lingotto da parte di un numero considerevole e inatteso di lettori. Eppure l’evidenza di un’impossibilità di ripristino della medesima e tutto quello che vi si può muovere intorno ha serpeggiato tra gli stand in alcune pubblicazioni che fortunatamente quello spirito lo hanno intercettato, in qualche, rarissimo, incontro ad hoc e in quei sottintesi o in quelle incidentali in cui il tema della fine si è insinuato prendendosi una parte di spazio inaspettata quanto intimamente desiderata da chi, come noi, non riesce più a comprendere il senso di pubblicazioni scevre dalla catastrofe collettiva nella quale siamo immersi fino al collo. In risposta a tutto ciò, il pianeta Ork riparte dall’incompiuto del Salone con due testi che ci aiutano a conferirgli un principio di forma e, dunque, forse anche di comprensione, poiché seguono la medesima direzione lungo la quale porsi il problema della fine del nostro genere facendone, prima ancora che una questione politica ed economica, qualcosa che attiene alla cultura: un orientamento che evidentemente non gira nel verso di un contenimento del tracollo, si nutre di storie che non hanno un grande respiro e nega la gravità provando ad assuefarsi a una precedente normalità che risuona vuota come una vecchia carcassa. Perché accade tutto questo? Perché, nonostante siamo le prime generazioni a fare concretamente i conti con la possibilità di un’estinzione di specie, non riusciamo a pensare a coloro che verranno dopo di noi? In sostanza, perché non siamo capaci di mettere in crisi le strutture mentali e sentimentali con cui siamo arrivati al collasso?

Si tratta del quesito da cui parte Carla Benedetti nel suo saggio edito da Einaudi, “La letteratura ci salverà dall’estinzione”. Se è chiaro che siamo in una sorta di congelamento del nostro pensiero critico e immaginativo, ciò non toglie che non si possa fare qualcosa per risvegliare “le forze dormienti”. Occorre cercare a monte. Se la cultura umanistica non è in grado di soccorrerci, non è perché essa sia incapace di farlo aprioristicamente, ma perché è attualmente attraversata da una “lacerazione profonda”: da un canto la condizione di vita del genere umano sul pianeta che ha assunto i caratteri palesi dell’estrema precarietà e dall’altro canto l’esistenza di forme culturali entro le quali la prima non riesce a collocarsi perché molti modelli di lettura del mondo non sono adeguatamente complessi e includono solo parti di realtà, generando il sopore del sentimento e l’inazione. Come uscirne? Probabilmente, suggerisce Carla Benedetti, con “una grande invenzione”, cioè “qualcosa che non riusciamo a immaginare a partire dall’esistente”. Ed è proprio immaginare il verbo chiave di questo tempo: non si tratta, infatti, di sapere. A ben guardare, sappiamo già abbastanza bene tutti in quale direzione ci stiamo muovendo e dove andremo a finire mantenendola. Non è pertanto il sapere che deve giungere in nostro soccorso, ma occorre un ripensamento del piano immaginativo: se inseriamo l’emergenza ambientale nelle storie che pubblichiamo e lasciamo inalterati gli schemi concettuali che ci hanno condotto al disastro, la modifica apportata varrà meno di zero. Cosa può fare, allora, la Letteratura ancora per noi? Intanto, necessario si profila un recupero delle “potenze dimenticate”: poemi come l’Iliade hanno il grande merito di ampliare lo sguardo includendovi l’esistente a cui si conferisce una capacità di azione. La terra, le acque, gli elementi naturali non fungono da “fondale inerte” delle azioni dell’uomo, ma interagiscono, col loro operato, con i medesimi. Se questa è la modalità operativa auspicabile del piano immaginativo, non è sufficiente, poiché manca il motore in grado di attivarlo: in sostanza, che cosa può spingermi a mettere in discussione il mio modo di pensare e lo sviluppo immaginativo conseguenziale, se neanche l’avere toccato con mano, attraverso la vicenda pandemica, la gravità dell’emergenza ambientale ha prodotto alcun mutamento (come è stato abbastanza evidente al Salone dall’osservazione della media delle pubblicazioni circolanti tra gli stand)? Serve un nuovo punto di vista temporale, anticipando la catastrofe futura come se fosse già accaduta: in particolare, non pensare all’oggi guardandolo dal domani, ma da un tempo ulteriore, da dopodomani, da dopo la fine del mondo (una sorta di paradosso, nell’ottica dell’altro saggio che tratteremo).

Possiamo rimanere indifferenti al dolore delle generazioni future, ma non possiamo esserlo di fronte alla coscienza che nessuno sarà in grado di restituirci un senso di eternità che poggia inevitabilmente su chi nasce dopo di noi (“Sapere che nessuno porterà il lutto per te, che nessuno reciterà la preghiera sulla tua tomba, che nessuno quindi si ricorderà di te perché non ci sarà più nessuno a pregare e a ricordare: questo pensiero ha la forza di terrorizzare gli ignavi, poiché non avere chi ti ricorda e chi ti piange equivale a non essere mai stato.”). Ciò produrrà l’ampliamento della scala temporale e la comprensione dell’esterno della storia della civiltà umana, includendo ciò che ha preceduto la comparsa dell’uomo sulla Terra e ciò che verrà dopo. Collocarsi e concepire la storia da un punto di vista differente non significa, però, cedere alla forma apocalittica. Se io mi pongo in quel dopodomani di cui si è detto, significa che sarò in grado di cogliere il dramma possibile in tutta la sua gravità, ma anche che posso evitarlo perché quel dramma è allo stato attuale una possibilità. Una possibilità concreta, ma non una certezza. Non serve la paralisi che l’idea apocalittica genera, ma una “disperazione agente” (“Il senso di emergenza, il sentimento di intollerabilità, l’«angoscia amante» di cui parlava Anders, sono incompatibili con il carattere di inevitabilità che gli annunciatori di apocalisse imprimono, anche senza volerlo, alla descrizione oggettiva e asettica della catastrofe in arrivo.”) che passi dalla parola che deve essere in grado non solo di aiutarci a comprendere, ad analizzare, a esercitare il nostro pensiero critico, ma anche stimolare la nostra immaginazione sostenendoci nella creazione di un nuovo mondo che ancora non c’è e potrebbe non esserci. Ora tutte le storie nelle quali questo tipo di parola confluisca, che siano epiche o meno, avranno la peculiarità di non lasciarci indifferenti, poiché racconteranno un’intollerabilità per ciò che è già accaduto da cui potremo ricavare il sostegno per il nostro movimento attuale. Destinato a infrangersi contro tutto ciò sarà il romanzo moderno realista che, abbarbicato al quotidiano, non sarà nelle condizioni di portare alla ribalta quell’inaudito, quella weirdness nella quale siamo. Molto più vicina sentiremo l’epica: e questo non perché Omero abbia il merito di ampliare lo sguardo oltre la condizione del singolo, ma perché nell’inclusione del medesimo in un orizzonte più vasto riuscirà a restituircene la precarietà, il senso del tragico, la forza della Letteratura. Se è vero che i modelli imperanti non consentono di dare ingresso alla complessità del reale, ciò non toglie che esistano nel nostro mondo attuale dei varchi, delle zone meno sorvegliate di altre da cui passa un’altra possibile storia: Carla Benedetti le individua nella fanciullezza, nelle culture che chiamiamo primitive e nell’arte, nell’immaginazione, nella parola. La zona buia scartata dal realismo moderno e dalla scienza è il nutrimento del nostro piano immaginativo e lo stimolo per andare oltre le anguste, negazioniste o apocalittiche, prospettive mediamente proposteci dal sistema.

Si muove lungo coordinate analoghe, ma non identiche, il viaggio che Matteo Meschiari compie nell’Antropocene attraverso nove parole chiave atte a generare una mappa, un itinerario possibile all’interno dell’altro saggio che ospitiamo, “Geografie del collasso”, Piano B edizioni. Riprende il tema della complessità l’ultima creatura di Meschiari, non solo nel senso di un adattamento alla realtà in un procedimento inclusivo che non ne scarti pezzi utili all’analisi e alla comprensione del presente, ma anche nel senso di un’urgenza di ricerca di alternative, percettive e cognitive, idonee a fare strada nel prosieguo tra la nebbia che si farà sempre più fitta mediante la creazione di un immaginario che suona attualmente vuoto o, meglio, saturo di quelle immagini che, prodotte dall’universo digitale, hanno spento la nostra facoltà di crearle. Complesso non è ciò che non può essere pensato o immaginato, complesso è “solo” ciò rispetto a cui sentirò la fatica di acquisizione degli strumenti idonei a comprenderlo. Non solo. Se il movimento deve partire, come sostenuto anche da Carla Benedetti, da un rinnovato spirito culturale, ciò non significa che esso non debba poi investire il piano economico generando un sistema di mutuo appoggio. Dunque, chiusura del cerchio. Procediamo, però, per gradi. Cosa occorre per sradicare quello che oggi impera dal lato culturale? Delle contro-narrazioni, sostiene Meschiari, all’interno delle quali la questione antropocenica venga metabolizzata attraverso non la forma apocalittica, che è blocco, impedimento, ma mediante la rivisitazione di concetti diffusi come ambiente, natura, wilderness, alla luce del collasso imminente in una traduzione di essi su di un piano concreto dentro cui si collocano le nostre vite e il rischio dell’oblio. Dunque, necessità di portare in quello che verrà ciò che ci tornerà utile, salvare quello di cui potremo avere bisogno, eternare per quanto possibile la nostra memoria (“In questo scenario di crollo inevitabile e di cambiamento necessario il passato non è più un’opzione, e allora abbiamo un lungo futuro alle spalle, fatto di gesti da reinventare, di libri non più letti da rileggere, fatto di rilegature spezzate da restaurare e di tracce da esumare nel presente.”), perché la catastrofe non è necessariamente la fine di tutto, ma è certamente la fine del mondo che conoscevamo e il principio di un altro ancora immaginabile, diverso dalle prospettive apocalittiche e dove la conoscenza potrà sostenere l’impensabile. Ed è proprio quest’ultima, unitamente al nutrimento immaginativo, il punto o uno dei punti da cui partire: se tutto passa dalla rete, nell’impossibilità di accertare l’attendibilità delle fonti e nella fatica dell’organizzazione del sapere che non ha appigli saldi e si muove nell’assenza di un rapporto spazio-temporale col testo, in una sorta di immaterialità del discorso, ogni cosa si fa estremamente aleatoria e solo pochi, quelli che ne hanno le competenze, di questo sistema complesso, potranno navigare senza intoppi, la restante parte non avrà tra le mani alcuno strumento utile. Fluttuerà nell’ignoranza e sarà facilmente manipolabile dagli oligarchi che continueranno a detenere il potere e a decidere per noi, anche delle sorti del pianeta.

Qui, è il ruolo della Cultura, nel punto in cui non induce a desistere dalla ricerca delegando alla rete il compito di colmare le lacune, ma responsabilizza, non solo rispetto alla propria vita, ma anche rispetto a quella altrui. Un’editoria che non si pone domande in merito ha tradito sé stessa. Se l’Antropocene è “un fatto sociale globale”, non ci si può sottrarre alla complessità della visione che comporta, laddove essa va a frantumare l’esistente e a indurre la creazione di un’alternativa che passi dall’immaginario. Eppure accade, accade che ci si ostini a non vedere la gravità dell’emergenza ambientale, che si ceda alla tesi complottista in una sorta di de-evoluzione che Meschiari non tarda a definire istupidimento collettivo con cui ci si adatta al collasso e ci si protegge dal terrore. Qualcosa di simile a quel mutamento irrazionale, compiutosi tra i cinque e i diecimila anni fa, quando si generò una crepa nella stabile armonia consolidatasi fino a quel momento tra uomo e ambiente naturale. Dunque, discorso qui articolato diversamente rispetto al primo saggio: lì certezza del sapere e inazione da erroneo punto di vista temporale, qui sapere incerto e istupidimento collettivo. Soluzioni analoghe, però, che investono il pensiero, la cultura e l’immaginazione. Come si deve porre, in particolare, l’editoria in tutto ciò? Quali libri possono avere un senso in quest’ottica? Non è la distopia la risposta, se essa non reca con sé lo stimolo alla generazione di un pensiero diverso, di un piano immaginativo alternativo al sistema. Ma non lo è neanche l’utopia, se essa non si traduce in pratica quotidiana alternativa all’oggetto della contestazione. Dunque, bando agli incasellamenti che inducono all’errore. Occorre, lo dice chiaramente Meschiari, “sabotare il racconto univoco con paradigmi follemente intelligenti”.

Proprio nella follia dell’intelligenza risiede il nucleo della zona buia alla quale accenna Carla Benedetti: una discesa sotterranea, uno scavo intellettuale, che metta in comunicazione luoghi e tempi diversi, che rifiuti la linearità del tempo a tutti i costi, che recuperi la fallacità umana non quale esito di un giudizio di fallimento attraverso cui gli oligarchi al potere ci manipolano inducendoci a colmare la mancanza, il vuoto con l’ultimo cellulare o altro prodotto lanciato sul mercato, ma quale espressione di una singolarità la cui disfunzione implica una possibilità di recupero. Se, come diceva Pavese, “raccontare è sentire nella diversità del reale una cadenza significativa, una cifra irrisolta del mistero, la seduzione di una verità sempre sul punto di rivelarsi e sempre sfuggente”, questo, qui, equivale a dire che la narrazione non deve eludere ciò che sfugge alla comprensione, ma sul terreno del sapere dare vita all’idea di futuro dove fare i conti con l’imprevisto attraverso ciò che saremo stati in grado di portare dal passato e l’attivazione del potere immaginifico che avremo saputo preservare e potenziare, superando gli steccati rappresentati dalle classificazioni. Schemi dentro i quali ci rintaniamo eludendo ogni forma di responsabilità e conseguente possibile azione nel reale. Fuga, insomma, esattamente come l’utopia. Testi, dunque, entrambi fondamentali, quello di Carla Benedetti e di Matteo Meschiari, perché, se l’una introduce chiaramente nella materia, l’altro la sviluppa su più lati, pur facendo della questione culturale uno dei punti sostanziale da cui ripartire, inserendo in ciascuna voce in cui il saggio si suddivide una molteplicità di concetti a cui, probabilmente, il primo in parte prepara.

Mindy

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