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È di questi giorni la prima immagine del buco nero. Circola sulla rete e sui media in genere, lasciandomi nella condizione di perplessità di chi non ha grande dimestichezza con il piano astronomico, nonostante i tripudi e la dovizia tecnica con cui Mork me ne spiega pazientemente gli ingranaggi e nonostante qui si parli spesso di pianeti e orbite e le stelle siano il costante motore di un agire quotidiano che si nutre di sogni.

Eppure intorno a questo fenomeno avevo incominciato a fare qualche rapido giro perché, se è vero che non riusciamo a prescindere dall’umano, può accadere che sia proprio quest’ultimo a condurci verso le stelle, divenendo la porta di ingresso a una fenomenologia che è personale e cosmica insieme.

E bravo Stern, allora, che ha saputo farlo egregiamente in quello che, a nostro giudizio, può considerarsi un romanzo destinato a diventare un classico della Letteratura, un prezioso libro uscito per la prima volta nel 1985 e oggi riscoperto da una piccola casa editrice pugliese, TerraRossa Edizioni, degna di stima per l’attento lavoro di riscoperta e di ricerca.

“Il Pantarei” è il titolo di oggi su Ork e Stern ne è il protagonista.

Si è battuto molto alle presentazioni a cui abbiamo partecipato (alla libreria “La Confraternita dell’Uva”, a Bologna, e all’ultima edizione milanese del Book Pride) sulla questione intorno a cui parrebbe essere stato scritto il romanzo, l’urgenza ravvisata da Ezio Sinigaglia di dare una sua personale risposta in merito all’eterno affaccendarsi sulla fine del romanzo che, a fasi alterne, si ripropone all’attenzione della Letteratura e degli ambienti culturali che vi ruotano intorno. Chissà perché a noi, umili orkers, tutto ciò appare talmente evidente, ingombrante in quel margine che supera la necessità della storia, margine ammorbidito dal tono sapientemente affabulatorio, da essere, a scavare bene, l’aspetto pure affascinante, ma meno importante di tutti.

Ed è l’incarico di lavoro affidato a Stern il canale in cui confluisce l’urgenza di Sinigaglia di rispondere al tema della fine del romanzo, poiché proprio a Stern spetta l’ingrato compito di riscrivere il capitolo di Letteratura all’interno di un’Enciclopedia della donna a cui è chiamato a prestare la propria competenza in cambio di una retribuzione in grado di offrirgli una stabilità oramai persa su altri fronti.

Perché la bellezza di Stern sta in una fragilità estrema dietro cui si fa gigantesca la paura di abbattere una propria idea di sé colma di ambizione e coscienza di talento. Non può dirsi che fragile chi teme di rompere l’abitudine a concepirsi in un dato e iper-strutturato modo, chi si difende dalla paura del vuoto di un’identità che si fa monca nella perdita di un pezzo per la fine di una relazione, quella con l’amata Anna.

E tutto il conseguente smembramento procede, pur nella resistenza della paura di affrontarlo, con la stessa forza implosiva con cui fuori Stern difende, per lavoro e non solo, l’immortalità del romanzo, divenendo, in una scrittura che è forma identitaria, di volta in volta, l’Anima degli scrittori che del romanzo hanno rappresentato l’evoluzione, talvolta la rivoluzione.

Perché, se è vero che il romanzo stilisticamente si sviluppa in un tracciato binario, alternando la vita privata di Stern alla parte saggistica in cui si sostanzia l’elaborato finalizzato alla consegna editoriale, è altrettanto vero che non esiste scissione se non nell’apparenza, essendo la prima una disgregazione trattenuta e la seconda il monumentale che tutto racchiude maestosamente e che consolida certezze e nasconde le crepe in un’ostentazione così fine e squisita da illuderci che non ci sia niente sotto.

E, in tutto ciò, il buco nero non è soltanto la spiegazione di un fenomeno affascinante che un amico di Stern rivolge a lui, che la stella la porta nel nome, è la condizione esistenziale di quest’uomo che attraversa l’intero romanzo.

Si dice che il buco nero sia non solo buio, per la capacità attrattiva della luce che ne viene risucchiata, ma che sia dimensione di silenzio.

Ecco, se esiste un aggettivo felice per “Il Pantarei”, è proprio questo: silenzioso, non solo come il tono vocale sommesso di Sinigaglia alle presentazioni, quasi una voce interiore che puoi avere avuto l’illusione di sentire solo tu, perché parla da altre profondità, senza bisogno di schiamazzo, ma anche come quello racchiuso nel suono di un elettrocardiogramma piatto che ferma l’istante della fine e la eterna nella continuità del romanzo che, come un buco nero, macera, inghiotte materia che non si annulla, ma permane in una forza che è oltre la fine delle cose, delle relazioni, dei sogni di gioventù.

Stern conosce il vuoto della fine di un amore importante, l’insensatezza delle relazioni o di molte di esse, il crollo dei desideri e l’accettazione di una realtà che non lo soddisfa. Conosce, prova a non viverlo, tutto ciò, si erge a talento mancato, intelligenza superiore, schiva il confronto, se non in forme egocentriche che ne intaccano il senso, si illude di fuggire dallo smembramento, ma esso è già in atto, perché non c’è più luce e manca l’angoscia dell’assenza.

Nulla, infatti, in questo romanzo si tinge di claustrofobico. C’è un perfetto equilibrio, esattamente quello che raggiunge il buco nero, tra ciò che vi implode dentro e l’esterno libero da condizionamenti lungo un confine che è l’orizzonte degli eventi, oltre cui c’è un’altra vita che Stern non è pronto ad affrontare e, forse, neanche vuole.

Ci permettiamo di consigliarvi caldamente la lettura di questo libro, scritto con una sapienza stilistica in via d’estinzione.

Non capita davvero spesso di imbattersi, di questi tempi, in gioielli del genere dove la scrittura ha un’intelligenza spiazzante e ironica e una potenza notevole, pur conservando, nonostante la ricchezza lessicale e le sperimentazioni costruttive di cui è pieno il romanzo, una piacevolezza rara.

Ci si chiede come un autore del genere dal 1985 abbia avuto così poco spazio nell’editoria italiana.

E troviamo risposta, a parte che nelle considerazioni relative a certi discutibili andamenti del settore, in un approccio all’esistenza che deve essere non solo di Stern, ma anche di Sinigaglia, in un’idea della vita in cui osservare è il modo migliore che abbiamo per capire, con l’aggiunta di quel pezzo di maturità che a Stern manca, che passa dall’ascolto, dalla sofferenza di un’assenza, dalla coscienza di un’ambiguità umana oltre le maschere e dai sogni che, talvolta, inseguiti, come le stelle, si raggiungono, ma non implodono.

Mindy

Psicodramma
“Psicodramma”, olio su tela trattata con vernice bianca, opera di Mork.

2 pensieri riguardo “Il Pantarei, ovvero di Stern e del suo buco nero.

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